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Mons. Antonio Masetti Zannini

Festa: Testimoni

Brescia, 12 novembre 1930 – 4 agosto 2006


Accade a chi è dedito a redigere profili biografici di smarrire nel tempo quel sacro rispetto che s’impone davanti all’universo di ogni uomo e può arrivare fino a convincersi che sia possibile rinchiuderlo ed esprimerlo agevolmente in qualche riga scritta. Il pericolo è ancor più incombente per chi abbia ricevuto la grazia di avere i santi quale singolare soggetto di tali scritti. Tuttavia, quando giunge nella vita il sublime momento di occuparsi di una persona conosciuta, seppur per pochissimi anni, ecco che la meraviglia d’un tempo si rinnova e torna severa la coscienza dell’impossibilità assoluta di render ragione di ciò che avviene in un cuore aperto all’azione di Dio. Ma l’ingenuo entusiasmo di provarci si è ormai riaffacciato al cuore ed è con gioia e gratitudine grandi che mi accingo a condividere qualche scarna informazione sull’amico Antonio Masetti Zannini. E non appaia una mancanza di rispetto il fatto che lo presenti per nome e cognome: troppi sarebbero i titoli e le qualificazioni professionali ed ecclesiastiche da porvi accanto e, del resto, la radicale discrezione che caratterizzò tutta la sua vita mal si concilierebbe con una loro fredda elencazione. La fantasia dello Spirito Santo nella storia della Chiesa ha manifestato e continua a manifestare percorsi infiniti di santificazione, almeno tanti quanti sono gli abitanti del paradiso perché ognuno di noi è unico e irripetibile davanti a Dio. Tuttavia, hanno tutti l’unico modello nel Signore Gesù e nella via da lui stesso indicata attraverso le otto beatitudini del discorso della montagna. Il responsabile del gruppo di Brescia dell’Ordine di Malta, nell’intervento tenuto al termine del funerale di don Antonio, si ispirava proprio ad esse dicendo di lui “che nel suo spirito e nel suo cuore anelava ad essere mite, puro di cuore, povero, ma libero di accogliere il Regno come dono di Dio”. Ebbene, se va trovata, è in questo anelito che si può scorgere una linea ideale che percorra l’intera esperienza spirituale di don Antonio e ancora molti sono i testimoni che possono narrare in prima persona come queste caratteristiche trasparissero in modo del tutto naturale da ogni incontro anche fortuito con lui.
Nacque don Antonio il 12 novembre 1930 nell’antica casa patrizia situata nella centralissima parrocchia di Santa Maria in Calchera a Brescia dove continuò sempre a risiedere. La sua è un’antica e nobile famiglia che a quel tempo legava la sua ricchezza alla proprietà fondiaria e fu proprio per prepararlo alla gestione di questo patrimonio che il padre Alessandro lo indirizzò allo studio dell’agricoltura presso il prestigioso istituto agrario Giuseppe Pastori dove si diplomerà nel 1948. Egli però, pur nella serena mitezza dell’obbedienza filiale, coltivava il santo proposito di diventare sacerdote. Decisivo fu il ruolo che giocò un giovane mons. Giovanni Battista Montini che con amicizia e paterno affetto lo seguì sin dai suoi primi passi, instaurando una preziosa amicizia spirituale che gli sarà, come ricordava don Antonio stesso, di grande aiuto nei momenti più difficili. Durante l’estate del 1948 gli confidò il suo desiderio di entrare in seminario in un paterno colloquio avuto in occasione del grande raduno nell’ottantesimo di fondazione della gioventù italiana di Azione Cattolica. Così l’anno seguente iniziò a frequentare la prima teologia nel seminario Santangelo, oggi sede del centro pastorale diocesano Paolo VI. E proprio a lui don Antonio dedicò il suo ultimo articolo scritto nel 2006 e pubblicato nel periodico dell’Associazione diocesana Paolo VI: Il valore dell’amicizia, «Paolo VI. In nomine Domini». Venne ordinato sacerdote il 14 giugno 1953 da mons. Giacinto Tredici e incominciò il ministero sacerdotale nella Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri che a Brescia è da tutti conosciuta sotto il nome di Padri della Pace. Terminata l’esperienza oratoriana nel 1957, fu mandato come curato nella parrocchia di Sant’Antonio in via Chiusure mentre era parroco un altro grande amico di Paolo VI, il cardinale Giulio Bevilacqua. Dal 1970 esercitò anche l’apostolato di cappellano conventuale del gruppo di Brescia dell’Ordine di Malta. Appassionato di storia e cultore di antiche memorie di cui peraltro già aveva scritto sin dai primi anni di sacerdozio, si diplomò in archivistica, paleografia e diplomatica presso l’Archivio di Stato di Milano nel 1971. Fu mansionario in Cattedrale e parroco per brevissimo tempo a Carzano di Montisola, in seguito il servizio parrocchiale lo svolgerà come collaboratore festivo nella parrocchia di San Giacomo in città e nella sua parrocchia di Santa Maria in Calchera e poi indirettamente come delegato di mons. Foresti per l’amministrazione del sacramento della Cresima. Fu poi custode delle Sante Reliquie della Diocesi, assistente e quindi docente di Paleografia e diplomatica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore nella sede di Brescia, presidente dell’Opera diocesana per l’assistenza ai sacerdoti anziani e invalidi Carlo e Giulia Milani, canonico della Cattedrale prima onorario e poi effettivo, segretario del Capitolo dei canonici, delegato vescovile per gli archivi ecclesiastici diocesani, priore della delegazione dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro, cappellano della Compagnia dei Custodi delle Sante Croci, responsabile dell’Archivio Capitolare. Un grande servizio alla Chiesa sempre bisognosa di riconoscere i testimoni della sua fede lo esercitò allorché fu nominato delegato vescovile nelle cause di canonizzazione del servo di Dio Giuseppe Tovini, del servo di Dio Giovanni Piamarta e della serva di Dio Antonietta Lesino; presidente della commissione per la ricognizione della salma del beato Mosè Tovini; presidente della commissione per l’esame degli scritti di Giovanni Battista Montini custoditi all’Istituto Paolo VI. Lungo tutta la vita fu membro insigne di accademie, riviste, associazioni culturali e centri di studio locali, diocesani, nazionali e dell’Ordine di Malta.
Soprattutto egli era, ed è dai più ricordato così, il grande direttore dell’Archivio Vescovile. Questo incarico, che assunse nel 1969 per volontà del vescovo mons. Luigi Morstabilini e che tenne fino al 2005, caratterizzò in modo del tutto speciale la sua vita di studioso e la sua testimonianza apostolica. Si trattava per lui di un vero servizio e lo esercitò nel suo modo consueto: silenzioso, premuroso, instancabile. Un servizio rivolto non soltanto al necessario mantenimento del buon ordine dei documenti ma anche a tutti coloro che a vario titolo si recavano in Archivio per ricerche, curiosità, ma anche e non di meno per ricevere un consiglio o sentire una parola buona. Con disinvoltura e riverenza si aggirava tra una stanza e l’altra indossando il suo grembiule nero da archivista ormai lucido per il prolungato uso. Possiamo indicare nella pazienza, a tratti eroica soprattutto con i principianti, il tratto saliente di questa esperienza che per don Antonio fu molto più che un incarico o un’occasione di studio: era il luogo principale del suo ministero. Mai dimenticava di essere sacerdote anche lì tra le carte e la storia e tale era per chiunque lo avvicinasse. Mons. Giulio Sanguineti nell’omelia del funerale non esitò a definirlo “sacerdote del sapere” per la sua capacità di distribuire a tutti la scienza storica come un sacerdote deve distribuire al suo popolo i beni di Dio. La scritta che accoglieva il visitatore all’ingresso dell’Archivio, “La ricerca d’archivio è un atto d’amore verso la Verità”, rappresenta la forma peculiare di svolgere il magistero sacerdotale che la Provvidenza assegnò a don Antonio. Il suo lavoro era alimento della lode e del servizio resi a Dio nel solco dell’insegnamento dell’abate di Cluny Pietro il Venerabile: “tutte le opere, buone o cattive che siano, che si compongono nel mondo per la volontà o il permesso di Dio, devono servire alla sua gloria e alla edificazione della Chiesa; ma se gli uomini le ignorano, come sarà glorificato Dio o edificata la Chiesa?”. Per questo aveva una dedizione straordinaria per i suoi allievi ai quali non fece mai mancare il consiglio, il competente aiuto nella difficile lettura delle scritture antiche, l’incoraggiamento nella ricerca, il sostegno talvolta anche economico negli studi. “Una forma di carità raffinata e rara”, la descrive Gabriele Archetti, redattore di Brixia sacra, la rivista di studi storici che tra le tante a cui collaborava don Antonio aveva certamente un posto speciale nel suo grande cuore.
Negli ultimi dieci anni della sua vita, don Antonio svolse anche l’importante ministero di Penitenziere della Cattedrale. Nel suo confessionale, il primo della navata di destra rivolto verso l’altare del Santissimo Sacramento, elargiva con costanza ogni giorno perdono, conforto e consolazione. Benefattore non sono spirituale, raggiungeva molte persone anche con l’aiuto economico prendendo anzitutto dalle sue sostanze ma anche amministrando e sollecitando una fitta rete anonima di generosità degli amici aristocratici. Anche grazie all’immensa schiera di questi poveri sconosciuti il funerale di don Antonio era affollatissimo pur essendo quel giorno il 7 agosto e la città di conseguenza deserta. Nel suo contatto con le persone, “come san Francesco di Sales” ricordava l’allora parroco della cattedrale mons. Serafino Corti, esprimeva grande intuito e delicatezza, ma soprattutto dolcezza, amabilità e bontà. Da quella cattedra nascosta esprimeva sentimenti di comprensione verso tutti e un desiderio mai sopraffatto dalle vicende umane di rappacificare gli animi e di stimolare le doti migliori in coloro che incontrava. Con questa disposizione, che non era affatto retorica ma l’abbondanza del suo cuore che affiorava alle labbra, affrontò anche la breve ultima malattia e sommamente il momento in cui misteriosamente fu dimesso dall’incarico dell’Archivio: mai una parola di biasimo per quella scelta incomprensibile, solo la docilità di chi sa di essere nelle mani forti di Dio; anche se a chi lo conosceva non poteva rimanere del tutto celato quanto fosse stata per lui dolorosa. Scienziato e confessore apprezzato e ricercato, accanto all’erudizione e alla sapienza evangelica, la sua caratteristica peculiare rimase sempre la discrezione, una virtù tutto sommato semplice ma sempre più ardua da conservare nel mondo malato di protagonismo in cui viviamo. Lo si poteva facilmente incontrare per la cattedrale e per la città con quella sua andatura timida e inconfondibile fatta di passi ravvicinati, quasi striscianti, lo sguardo piuttosto basso ma gioioso, sì perché anche la gioia che con estrema naturalezza trasmetteva era discreta. Questa immagine emblematica, disse il Vescovo nell’omelia del funerale, “sembrava segno della sua appartenenza al Signore: camminava come se seguisse Qualcuno su cui poggiava tutto se stesso”. Così, nello spirito di umiltà delle beatitudini, si chiuse il 4 agosto 2006 il suo pellegrinaggio terreno che silenziosamente ha portato un raggio di luce divina sulle strade dell’antica città di Brescia rinnovando nel nostro tempo la testimonianza di tanti santi che le avevano percorse prima di lui. “È morto il giorno della memoria di San Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars: l’uomo che possedeva la scienza e la sapienza di Dio. E non sembrava”.


Autore:
Emanuele Borserini

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Aggiunto/modificato il 2014-09-29

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