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Santi Martiri del Genocidio Armeno

Festa: 24 aprile (Chiese Orientali)

Cent’anni orsono si consumava uno dei più sanguinosi eccidi dei tempi moderni che costò la vita ad un milione e mezzo di cristiani armeni. Domenica 12 aprile Papa Francesco, durante la Messa presieduta in Vaticano non ha esitato a riconoscere questo tragico evento quale un vero e proprio genocidio, checché ne dicano coloro che ancora oggi si ostinano a non riconoscerlo come tale. Il 23 aprile la Chiesa Apostolica Armena ha canonizzato in massa questo milione e mezzo di uomini, donne e bambini morti a causa della loro appartenenza etnica e religiosa. Il giorno successivo, 24 aprile, a partire da quest’anno diviene così la “giornata della memoria” di queste vittime, come ha annunciato il patriarca armeno Karekin II nell’enciclica con cui ha aperto ufficialmente le celebrazioni del centenario del genocidio. Celebrazioni che si estenderanno per tutto l'anno, ha sottolineato, specificando che “ogni giorno del 2015 sarà un giorno di ricordo e di devozione al nostro popolo, un viaggio spirituale al memoriale dei nostri martiri. Nel 1915 e negli anni successivi un milione e mezzo di nostri figli e figlie ha subito la morte, la fame, la malattia; è stato deportato e costretto a camminare fino alla morte. Secoli di creatività e di obiettivi raggiunti sono stati distrutti in un istante. Migliaia di chiese e monasteri sono stati profanati e distrutti, le istituzioni nazionali e le scuole rase al suolo e demolite. I nostri tesori spirituali e culturali sono stati sradicati e cancellati”. In seguito, con il coraggio della fede e il genio che lo caratterizza, questo popolo ha potuto “risuscitare dalla morte” e tornare a brillare, come spiega il patriarca. “Riponendo la nostra speranza in Te, o Signore, il nostro popolo è stato illuminato e rafforzato. La tua luce ha acceso l'ingegno del nostro spirito. La tua forza ci ha orientati alle nostre vittorie. Abbiamo creato quando altri avevano distrutto le nostre creazioni. Abbiamo continuato a vivere quando altri ci volevano morti”. Il centenario permette di celebrare anche questa risurrezione. Anche la Chiesa Cattolica Armena ha già avviato le pratiche per la beatificazione di 43 suoi figli vittime del genocidio.



La persecuzione scatenata, tra il 1915 e il 1918, dai turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto dell’Impero Ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca moderna di sistematica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Una campagna di eliminazione che non scaturì soltanto dell’ideologia, scopertamente razzista, del sedicente Partito “modernista e progressista” dei Giovani Turchi, ma trasse le sue origini più profonde anche dall’innata, anche se inconfessabile, insofferenza che i mussulmani ottomani e curdi di Anatolia hanno sempre manifestato nei confronti di una minoranza cristiana, quella armena, portatrice di valori religiosi e culturali semplicemente diversi.
Ma andiamo per ordine e cerchiamo di capire le motivazioni e la genesi di uno dei più orribili e meno pubblicizzati fenomeni di intolleranza etnico-religiosa del XX secolo. Lo sterminio degli armeni, verificatosi tra il 1915 e il 1918, in realtà non rappresenta che il completamento di una lunghissima campagna di persecuzioni e di discriminazioni che ebbe inizio a partire dalla seconda metà dell’Ottocento all’interno dei confini del decadente Impero Ottomano. Tra il 1894 e il 1896 ‘Abd ul-Hamid, l’ultimo sovrano, o meglio despota, della Sacra Porta, diede il via ad un programma di sterminio che, sotto molti aspetti è possibile paragonare a quello nazista nei confronti del popolo ebraico (1). Fu proprio in questo periodo, infatti, che il governo turco iniziò ad applicare nei confronti degli armeni - già discriminati in molti settori della vita civile ma ancora in grado di sopravvivere più o meno decorosamente - una serie di leggi volte non soltanto a perfezionare l’isolamento civile della minoranza, ma a decretarne e a renderne possibile, in buona sostanza, lo sterminio legale: una manovra che in buona misura venne attuata anche per scaricare sugli armeni - popolo, o meglio nazione, tradizionalmente molto attiva e mediamente colta - la responsabilità dei fallimenti di una politica di governo, quella dei sultani, assolutamente deficitaria ed arretrata. La persecuzione contro gli armeni, infatti, va anche vista come il risultato di quei complessi e traumatici processi storici che tra la seconda metà del XIX secolo e i primi tredici anni del XX determinarono lo sgretolamento dell’Impero Ottomano.
Dopo avere dovuto rinunciare (in seguito alla guerra con l’Italia del 1911/12 e alla Prima Guerra Balcanica del 1913) a gran parte dei suoi possedimenti (Libia, Albania, Macedonia e parte delle isole dell’Egeo), il governo di Costantinopoli, entrò in una fase di crisi molto acuta. Temendo la completa dissoluzione dell’Impero, prima la Sacra Porta e poi il Partito dei Giovani Turchi, iniziarono ad assumere un atteggiamento sempre più sospettoso nei confronti delle minoranze (come quella greca, bulgara, ebraica, beduina e armena), colpevoli - scendo i vertici di Costantinopoli - di tramare nei confronti dell’Impero, minandone le fondamenta. E complice quest’ottica distorta ed inesatta, fu proprio la minoranza armena quella a destare le maggiori attenzioni. Ma la ragione di tanta diffidenza da parte dei turchi nel confronti degli armeni scaturiva anche da precise considerazioni e timori di carattere politico internazionale. La Sacra Porta, infatti, vedeva in questa minoranza, che in gran parte abitava l’area anatolica nord orientale, una possibile se non sicura alleata dell’Impero Russo cristiano ortodosso, il più feroce e tradizionale nemico della Sacra Porta. Un Impero che, fino dai tempi di Pietro il Grande (1682-1725) e di Nicola I (1825-55), aveva sempre cercato di sottrarre alla Turchia le regioni confinanti del Caucaso, guadagnandosi la simpatia delle comunità armene ormai stanche di sottostare al dispotico dominio ottomano. Diverse furono le guerre che, tra il XVIII e il XIX secolo, contrapposero i turchi ai russi. Nel 1876, le forze zariste, che erano intervenute a sostegno della Bulgaria, costrinsero Costantinopoli ad una resa umiliante, imponendo alla Sacra Porta il Trattato di Santo Stefano. Un documento, quest’ultimo, che sancì tra l’altro la cessione alla Russia di alcune aree dell’Anatolia nord settentrionale, abitate da armeni.. Tuttavia, il Trattato, non divenne mai del tutto operativo, anche a causa delle pressioni esercitate dal Primo Ministro inglese Benjamin Disraeli, da sempre ostile ad una eccessiva espansione politica e militare russa, soprattutto sui Balcani. E in seguito all’intromissione di altre potenze occidentali (come la Francia e la Prussia) avverse anch’esse alla Russia, il documento venne così parzialmente modificato, con l’eliminazione della clausola relativa alla tutela della minoranza armena. In buona sostanza, nessuna potenza occidentale volle spendere una parola in favore della popolazione cristiana, preferendo orientarsi verso una real politik. Anche se, pochi anni dopo, nel 1878, l’articolo 61 del successivo Trattato di Berlino del 1878, sancì, almeno sulla carta, il diritto alla sopravvivenza di questa sfortunata comunità. Il sostanziale disimpegno delle nazioni europee permise al dispotico Sultano Abdul Hamid di sopprimere la fragile Costituzione concessa nel 1876, abolendo tutte le libertà più elementari, istituendo nuove, severe leggi contro le minoranze religiose del Paese e costituendo nel contempo un’efficientissima polizia segreta incaricata di schiacciare il neonato Movimento Indipendentista Armeno. Non contento, il Sultano incoraggiò inoltre le tribù curde mussulmane ad emigrare verso le tradizionali zone rurali armene della Turchia orientale, aizzandole contro i cristiani. Forti dell’appoggio della Polizia Segreta e dell’Esercito Ottomano, i curdi iniziarono così ad insediarsi in territorio armeno, scacciando con la forza la locale popolazione. Costretti alla fuga, gli armeni furono quindi obbligati a trasferirsi sempre più a nord est in direzione delle regioni caucasiche russe: una manovra che la Sacra Porta, con notevole malafede, volle interpretare come un atto di slealtà nei suoi confronti e di connivenza con il nemico zarista. Fu a quel punto che il Movimento Indipendentista Armeno iniziò a frantumarsi in diversi gruppi politici e società segrete, tra cui l’Armenakan (fondato nel 1885), il partito socialdemocratico Hunchak (1887) e il più radicale “movimento” Dashnak (1890), con lo scopo di combattere i turchi. Ma la risposta del Sultano non si fece attendere. Il despota di Costantinopoli organizzò i membri delle tribù curde nei cosiddetti reggimenti di cavalleria Hamidye: autentiche bande armate di predoni autorizzate dal governo a perseguitare e a massacrare gli armeni dell’Anatolia Orientale.
Ma se gli armeni rimasti incapsulati in territorio ottomano se la passavano male, occorre dire che anche quelli che erano riusciti a rifugiarsi nelle zone russo caucasiche non poterono certo considerarsi in salvo. Nel 1881, in seguito all’assassinio dello zar Alessandro II, il primo ministro liberale di origine armena Loris Melikov, dovette rassegnare le dimissioni, in quanto ritenuto incapace di governare il sempre crescente malcontento dei nazionalisti georgiani e armeni del Caucaso. Dopo l’uscita di Melikov, i successivi governi di San Pietroburgo iniziarono quindi a manifestare una certa diffidenza se non ostilità nei confronti degli armeni, sia quelli residenti in Turchia che quelli stanziati in territorio zarista (2). Nel 1903, lo zar Nicola II tentò perfino di confiscare le proprietà della Chiesa Nazionale Armena, ordinando la chiusura delle scuole e delle altre istituzioni della Transcaucasia russa. Questo drastico cambiamento di rotta russo, consentì al Sultano Abd ul-Hamid di alzare il tiro contro l’odiata minoranza, prendendo a presteso, tra l’altro, alcuni gravi ed insensati attentati compiuti, tra il 1890 e il 1894, dalle frange estremiste del Movimento Indipendentista Armeno. La situazione stava precipitando. Nel 1894, un affiliato del Hunchak, un certo Murat, convinse le popolazioni di montagna armene del distretto di Sassun a non pagare ai capi curdi locali l’odioso “hafir”, o contributo per la protezione. L’“hafir” era in realtà una forma di estorsione regolarizzata dal governo turco a tutto beneficio dei curdi che in questo modo potevano arricchirsi alle spalle dei contadini e dei montanari armeni.
L’11 marzo 1895, Gran Bretagna, Francia e Russia, scandalizzate dall’inasprirsi delle misure anti-armene, cambiarono improvvisamente atteggiamento, intimando al Sultano di concedere alla minoranza cristiana una forma di seppur limitata autonomia. La richiesta venne respinta da Hamid che per contro intensificò la sua politica repressiva, giungendo a compiere vere e proprie stragi di armeni, anche nelle principali città dell’Impero. Secondo precise testimonianze dell’epoca, riportate da diplomatici italiani, francesi, inglesi e americani, in più di un’occasione, le truppe turche e curde saccheggiarono villaggi, rubarono bestiame, violentarono donne e bambini, costringendo non di rado i prelati armeni a riunirsi nelle loro chiese alle quali appiccarono fuoco dopo averne inchiodato le porte. Tra il 1894 e il 1896, le forze ottomane e curde eliminarono nei modi più barbari dai 200 ai 250.000 armeni. Questa ondata di violenza raggiunse livelli tali da indurre l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti, ad invocare la destituzione del Sultano. Dal canto suo, sia lo zar che il kaiser Guglielmo II, che nel 1889 aveva già effettuato una visita di stato nella capitale del Bosforo, decisero invece di mantenere un atteggiamento neutrale nei confronti del Sultano. L’atteggiamento del kaiser scaturiva da ben precise considerazioni di carattere politico ed economico. Guglielmo II era infatti desideroso di portare a termine la costruzione della linea ferroviaria Berlino-Baghdad: un’arteria che, una volta ultimata, avrebbe consentito alla Germania di intensificare i suoi scambi commerciali con la Turchia e, soprattutto, di consentire all’Impero tedesco di allargare la sua sfera di influenza verso il Medio Oriente, la Mesopotamia e il Golfo Persico.
L’ultimo decennio del regno di Abd ul-Hamid fu caratterizzato da una situazione politica, economica e sociale interna molto incerta densa di difficoltà, destinata a sfociare in gravi sommosse. Verso la fine dell’800, in alcuni circoli di Salonicco, un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito, i Liberi Massoni, assieme ad alcuni esiliati politici turchi confluiti nella società segreta di Unione e Progresso, iniziarono a tramare contro il vecchio potere centrale assolutista. In seguito, il cosiddetto Movimento dei Giovani Turchi andò però ben oltre, auspicando l’eliminazione del sultano e avviando un ambizioso, rapido e radicale processo di modernizzazione socio-politica, economica e culturale dell’Impero. La rivolta, capeggiata da un gruppo di giovani ufficiali favorevoli ad una sorta di “occidentalizzazione” dell’Impero, scoppiò nel 1908, a Monastir. Il 23 luglio dello stesso anno, il Comitato Centrale di Unione e Progresso intimò al Sultano di ripristinare immediatamente la Costituzione del 1876 (da lui soppressa nel 1878), intimando di marciare con l’esercito su Costantinopoli. Il Sultano questa volta cedette e la Costituzione venne ripristinata ufficialmente il 24 luglio 1908. Seguì un breve periodo di euforia con grandi festeggiamenti a Costantinopoli, Damasco, Baghdad e nelle città e regioni popolate dalle minoranze etniche e religiose armene, ebraiche, slave e arabe che vedevano nella rivolta militare contro il Sultano l’inizio di un nuovo periodo caratterizzato da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo, i giovani ufficiali turchi proclamarono che mussulmani, cristiani ed ebrei non sarebbero più stati divisi e avrebbero contribuito, tutti insieme e su uno stato di completa parità, alla gloriosa rinascita economica e sociale della nazione ottomana.
Nel 1909, dopo un fallito tentativo controrivoluzionario condotto dai sostenitori del regime assolutista di Hamid, gli ufficiali “modernisti” guidati da Taalat Pascià deposero definitivamente Hamid, costringendolo a lasciare il posto a suo fratello Muhammad (Mehemet) V. (3) E quest’ultimo, non volendo seccature, accettò di buon grado le direttive degli ufficiali rivoluzionari che, nel frattempo, avevano però cominciato ad elaborare programmi a forte contenuto nazionalista e razzista, rimangiandosi tutte le promesse di libertà (subito dopo la caduta di Hamid, i Giovani Turchi avevano dato vita ad un regime parlamentare, concedendo ad elementi cristiani, ebrei e arabi di entrare nella pubblica amministrazione e di prestare servizio nell’Esercito). Tuttavia, dopo la sconfitta subita ad opera dell’Italia nel 1912 e i rovesci subiti nell’ambito della Prima Guerra Balcanica, il 26 gennaio 1913 si verificò a Costantinopoli un nuovo colpo di stato. Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Jemal presero con la forza il potere dando vita ad una sorta di triumvirato. Abbandonati ben presto gli ideali liberali e parlamentari, i Giovani Turchi avviarono un capillare processo di “turchizzazione” dell’Impero Ottomano (una strategia politica che faceva perno sui principi del “pan-turanismo”, una corrente ideologica della “rinascita ottomana” sostenuta da Ziya Gok Alp, discepolo del sociologo francese Emile Durkheim). Imbevuti di questa dottrina, che magnificava le virtù degli antichi statisti, guerrieri e condottieri turchi, il mai completamente sopito e sostanziale atteggiamento di intolleranza dei Giovani Turchi nei confronti delle minoranze dell’Impero, soprattutto quella armena cristiana, iniziò ad emergere con estremo vigore. E verso la primavera del 1914, proprio alla vigilia dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Giunta dei Giovani Turchi, iniziò a pianificare scientificamente quello che si sarebbe ben presto rivelato il primo “genocidio” programmato dell’era moderna. Dopo l’entrata in guerra dell’Impero Ottomano (29 ottobre 1914) a fianco degli Imperi Centrali, la comunità armena, allo scuro delle manovre segrete dei Giovani Turchi, volle dimostrare a Costantinopoli la sua fedeltà alla nazione ottomana. E nell’estate del 1914, ad Erzerum, in occasione dell’ottavo congresso del partito Dashnak, i leader del più forte movimento indipendentista armeno invitarono tutti gli iscritti ad assolvere ai loro doveri di fedeli sudditi e soldati dell’Impero. Nel giro di poche settimane ben 250.000 armeni si arruolarono nelle forze armate turche, dimostrando, già a partire dalla sfortunata campagna, scatenata nel successivo mese di dicembre da Enver nel Caucaso contro i russi, una assoluta lealtà nei confronti del governo che, nel frattempo, stava ultimando i preparativi per scatenare contro di essi un vero e proprio massacro a sorpresa.
All’inizio del 1915, nel corso di una riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso, il segretario esecutivo Nazim concluse testualmente i lavori: “Siamo in guerra; e non potrebbe verificarsi un’occasione migliore per sterminare tutta la popolazione armeno. In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa; e se anche ciò accadesse tutti si troverebbero di fronte ad un fatto compiuto”. Un altro dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi. “Siamo nelle condizioni ideali per spedire sul fronte caucasico tutti i giovani armeni ancora in grado di imbracciare un fucile. E una volta là, possiamo intrappolarli e annientarli con facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le forze speciali che piazzeremo alle loro spalle”. In quella data il Comitato decise che “lo sterminio degli armeni” sarebbe stato affidato ad una speciale Commissione a tre, comprendente lo stesso segretario esecutivo Nazim, Behaettin Shakir e il Ministro della Pubblica Istruzione, Shoukri, sotto il diretto controllo di Taalat Pascià. La commissione istituì a sua volta la cosiddetta “Organizzazione Speciale” (Teshkilate Makhsusa) nella quale entrò a fare parte una folta schiera di ex detenuti e di delinquenti ai quali venne promessa la libertà in cambio di loschi servigi. All’inizio della primavera 1915, i capi turchi scatenarono l’esercito e le solite bande curde contro gli indifesi villaggi armeni che vennero depredati. Successivamente, bande armate curde e reparti dell’esercito e della polizia, incominciarono ad arrestare - accusandoli di connivenza con il nemico russo - tutti gli esponenti dei vari partiti armeni. Nel giro di poche settimane, decine di migliaia di cristiani vennero imprigionati e sottoposti a spaventose e documentate torture. I curdi mussulmani si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti ai quali vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti con punteruoli roventi e tenaglie. Gevdet Bey, vali della città di Van e cognato del Ministro della Difesa Enver Pascià, fu visto dare ordine ai suoi uomini di inchiodare ferri di cavallo ai piedi delle vittime, costringendo poi quei disgraziati ad effettuare improbabili danze mortali. Il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, nel corso di una gigantesca retata, circa 500 esponenti del Movimento Armeno vennero incarcerati e poi strangolati con filo di ferro nel profondo di sordide segrete. (4) Stando ad un rapporto ufficiale del console statunitense ad Ankara, nel luglio 1915, duemila soldati di etnia armena, reduci dalla campagna del Caucaso, vennero improvvisamente disarmati dai turchi e spediti in catene nella regione della città di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella costruzione di una strada. Ma giunti in una vallata, i militari armeni vennero circondati da un battaglione della polizia turca e massacrati a colpi di moschetto. Tutti i cadaveri vennero poi scaraventati in una profonda grotta. Identico destino toccò ad altri 2.500 militari armeni, anch’essi condotti nei pressi di una cava di pietra, in località Diyarbakir, e lì trucidati da un grosso reparto misto formato da soldati e miliziani curdi. Sempre secondo i resoconti dei diplomatici statunitensi, i corpi delle vittime vennero seviziati, spogliati e lasciati a marcire nella cava. Nel giugno 1916, dopo avere eliminato circa 150.000 militari di origine armena, i turchi decisero di fare fuori anche un terzo degli operai armeni impiegati nella costruzione e manutenzione dell’importante linea ferroviaria Berlino-Costantinopoli-Baghdad. Ma a questo punto, gli alleati tedeschi e austriaci, che da tempo avevano palesato il loro disappunto per le orrende carneficine, denunciarono finalmente, e in maniera ufficiale, le atrocità turche. L’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, il conte von Wolff-Metternich, si precipitò alla Sublime Porta, accusando direttamente Taalat Pascià e il Ministro degli Esteri Halil Pascià “di inutili crudeltà e persino di atti di sabotaggio”. Tuttavia, le vibranti proteste dell’ambasciatore lasciarono impassibili i capi ottomani.
Fu allora che molti ufficiali e sottufficiali armeni, scampati ai massacri, tentarono di organizzare sui monti la resistenza. Nell’aprile 1915, nella città di Van, alcune migliaia di civili armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca, barricandosi nel nucleo urbano dove resistettero per molti giorni alla controffensiva ottomana e curda; fino all’arrivo, provvidenziale, di una divisione di cavalleria russa che nel mese maggio liberò dall’assedio quei disperati. Eguale successo ebbe poi la storica e ormai famosa resistenza del massiccio montuoso del Musa Dagh, nei pressi di Antiochia (Golfo di Alessandretta). Su questo acrocoro non meno di 4.000 armeni si trincerarono decisi a vendere cara la pelle. Resistettero per ben quaranta giorni agli attacchi dei reparti regolari dell’esercito ottomano e dei “volontari” civili turchi, segnando una delle pagine più eroiche della storia del popolo armeno. Alla fine, proprio quando la resistenza sembrava dovere cedere di fronte alle preponderanza dell’avversario, i reduci vennero salvati dal provvidenziale arrivo nel Golfo di Alessandretta di una squadra navale francese che riuscì in gran parte a trarli in salvo (l’epopea del Musa Dagh venne in seguito narrata da Franz Werfel nel suo celebre romanzo storico “I quaranta giorni di Musa Dah”). Purtroppo, altri tentativi di resistenza non ebbero la medesima fortuna, come accadde ad di Urfa. Qui, tutta la guarnigione armena, composta di ex-militari e civili, dovette soccombere alle soverchianti forze ottomane che, a battaglia conclusa, massacrarono tutti i difensori ancora in vita, compresi i feriti.
Verso l’autunno del 1915, una volta eliminata la parte più giovane e combattiva della nazione armena, il Ministero degli Interni ottomano iniziò a pianificare lo sterminio di tutti gli adulti di età superiore ai 45 anni, che fino ad allora erano stati risparmiati perché ritenuti necessari al lavoro delle campagne, e degli ultimi prelati. Come testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato dal Ministro Taalat Pascià al governatore turco di Aleppo il 15 settembre 1915. “Siete già stato informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione armena…Occorre la vostra massima collaborazione…Non sia usata pietà per nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi…Per quanto tragici possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza”. Per risparmiare denaro e per razionalizzare al massimo l’operazione, la Giunta dei Giovani Turchi avviò una deportazione di massa (dalla quale talvolta vennero però risparmiati i medici o i tecnici utili al governo, come accadde nella città di Kayseri) in modo da concentrare in pochi siti isolati tutti gli armeni ancora in vita. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata e poverissima regione siriana di Deir al-Zor, dove, dopo una marcia a piedi di centinaia di chilometri, intere famiglie armene vennero ammassate e trucidate nei modi più raccapriccianti, tanto da sollevare le inutili proteste di un gruppo di ufficiali tedeschi e austriaci che assistette a quei tragici eventi. Queste deportazioni vennero architettate anche per facilitare l’esproprio dei beni immobili armeni. Abbandonata la precedente prassi della distruzione dei villaggi, molti dirigenti del partito dei Giovani Turchi e moltissimi funzionari di polizia e comandanti delle famigerate bande a cavallo curde ebbero modo di arricchirsi proprio in virtù di questi lasciti forzati.
Nell’inverno del ’15 il rappresentante tedesco a Costantinopoli, conte Wolff-Metternich - che, come si è già detto, non aveva mai mancato di stigmatizzare “il crudele e controproducente comportamento degli ottomani nei confronti delle minoranze cristiane” -  denunciò, in una missiva inviata a Berlino, questa “orribile prassi”, accusando nuovamente i Giovani Turchi di “tradimento nei confronti della comune causa tedesco-ottomana”. L’ambasciatore tedesco agì in maniera talmente diretta da indurre Enver Pascià e Taalat Pascià a chiederne a Berlino la sua sostituzione, cosa che in effetti avvenne nel 1916. A testimonianza delle dimensioni del fenomeno “espropriazioni”, dopo la fine della guerra, nel 1919, lo scrittore e storico tedesco J.Lepsius nel suo “Deutschland und Armenien” stimò che nel 1916 “i profitti derivati all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacché dai beni rapinati agli armeni fossero arrivati a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”. Per onestà va comunque detto che, in certi casi, alcuni governatori (i vali) turchi, (come quello di Angora, città nella quale vivevano 20.000 armeni), mostrarono indubbia pietà nei confronti degli armeni, arrivando anche a disubbidire alle direttive del governo. Tanto che, nel luglio del ’15, il governatore di Ankara - che si era opposto agli stermini - venne subito rimosso e sostituito con un funzionario più zelante. Come il vali Gevdet che, nell’estate del ’15, a Siirt, a sud di Bitlis, “fece massacrare - come testimonia Rafael de Nogales, un mercenario venezuelano che nel 1915 si era arruolato nell’esercito turco - oltre 10.000 tra armeni, cristiani nestoriani e giacobiti, lasciando i loro corpi ignudi in pasto agli avvoltoi e ai cani randagi”. Identici resoconti possono riscontrarsi anche nei documenti e nelle memorie di numerosi addetti diplomatici tedeschi, americani, svedesi e anche italiani. Sull’edizione del quotidiano Il Messaggero di Roma (25 agosto 1915) venne pubblicata la denuncia del console generale a Trebisonda, Giovanni Gorrini. Costui affermò che “degli oltre 14.000 armeni legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 (dal punto di vista religioso la comunità era composta da cristiani gregoriani, cattolici e protestanti, nda) il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati infatti deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in vallate dell’entroterra e massacrati”. E intanto proseguiva senza soste la deportazione degli armeni destinati ai famigerati campi di raccolta (e di sterminio) della città di Deir al-Azor. Questi, privi di baracche, servizi igienici, iniziarono ad accogliere all’interno dei loro perimetri cintati da fitti sbarramenti di filo spinato sorvegliato da guardie armate, decine di migliaia di profughi. “Ben presto - come narra lo scrittore David Marshall Lang nel suo eccellente e ben documentato “Armeni, un popolo in esilio” - in questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini, scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte della popolazione siriana…Solo ad Aleppo, tra l’agosto 1916 e l’agosto 1917, circa 35.000 persone morirono di tifo”. Epidemie che si rivelarono talmente devastanti da mettere in allarme lo stesso generale Otto Liman von Sanders, comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò di attivare, attraverso il suo Servizio Sanitario, una qualche forma di assistenza, sempre contrastato dalle autorità ottomane che, accecate dall’odio verso gli armeni, non si rendevano conto dell’immane disastro che avevano provocato. In terra siriana, qualche centinaio di ragazzine e di bambini armeni riuscì però a scampare alla morte per fame, malattia o alle fucilate degli aguzzini turchi. Le ragazze, soprattutto le più giovani e graziose, vennero infatti vendute per poche piastre ad alcuni possidenti arabi che le rinchiusero nei bordelli, non prima di averle fatte convertire forzatamente all’Islam. Nell’autunno del 1918, quando le forze inglesi del generale Edmund Allenby dopo avere sconfitto i turco-tedeschi a Megiddo, occuparono la Palestina e la Siria, trovarono ancora in vita alcune decine di queste derelitte, tutte marchiate a fuoco dagli stenti e dalle malattie veneree. Sorte ancora peggiore toccò ai bambini armeni rinchiusi nei campi siriani. Gran parte di questi vennero infatti sottratti alle madri e inviati anch’essi in bordelli per omosessuali o in speciali orfanotrofi per essere rieducati come turchi mussulmani da Halidé Edib Adivart, una mostruosa virago alla quale il governatore della Siria aveva affidato il compito di “raddrizzare la schiena alla ribelle gioventù armena”.
Nonostante tutto, il governo ottomano non si reputava ancora soddisfatto della risoluzione del “problema armeno”. Nei campi, “i cristiani infedeli morivano troppo lentamente”. Nel 1916, Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Gemal diedero quindi un ulteriore giro di vite alla loro politica di sterminio, intimando ai loro governatori e capi di polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile, con mezzi più economici, tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”. In questa seconda fase del massacro ebbe modo di distinguersi proprio il governatore del distretto di Deir al-Azor, certo Zekki, che ogni mattina era solito “cavalcare nei campi tra i profughi, tirare su un bambino, farlo roteare in aria, e scagliarlo contro le rocce”. Zekki - secondo quanto scrive J. Bryce (autore di “The Treatment of Armenians”), “rinchiuse 500 armeni all’interno di una stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e di sete”. E a dimostrazione dello zelo di questo governatore, basti pensare che, durante l’estate del 1916, i suoi uomini eliminarono oltre 20.000 armeni. Taalat Pascià, divenuto Gran Visir, arrivò addirittura a vantarsi dell’efficienza del suo governatore con l’esterrefatto ambasciatore americano Morgenthau, al quale egli ebbe anche l’ardire di chiedere “l’elenco delle assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in modo da consentire al Governo di incassare gli utili delle polizze”.
Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell’Impero Ottomano, la situazione delle comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso si fece improvvisamente drammatica. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo aveva infatti iniziato a ritirarsi dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane, ormai libere di agire, iniziarono una meticolosa caccia all’uomo, arrivando a sopprimere circa 19.000 persone in poche settimane. Identica sorte che toccò a quei profughi cristiani che, rifugiatisi preventivamente in Transcaucasia, soprattutto in Georgia e nella regione caspica di Baku, vennero massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene. Nel settembre del ’18, nella sola area di Baku furono eliminati 30.000 armeni.
Ma la guerra stava volgendo ormai al termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili turchi delle stragi iniziarono a sparire nell’ombra, onde evitare il peggio. Quando, nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali dirigenti e responsabili del partito dei Giovani Turchi e del Comitato di Unione e Progresso vennero arrestati dagli inglesi e internati per un breve periodo a Malta. Successivamente, un tribunale militare turco condannò a morte, in contumacia, Enver Pascià, Ahmed Gemal e Nazim, accusati di avere architettato e portato a compimento, tra il 1914 e il 1918, l’olocausto armeno. Ormai espatriati, nessuno dei condannati finì però nelle mani della giustizia regolare. Ci pensò il destino e, come spesso accade, lo spirito vendicativo dell’uomo a colpire chi si era macchiato di tanti efferati crimini. Il 15 marzo 1921, Taalat Pascià, forse il più crudele dei tre triumviri di Costantinopoli, venne assassinato a Berlino da uno studente armeno, tale Soghomon Tehlirian (che venne processato da un tribunali tedesco e successivamente assolto); sorte che toccò il 21 luglio 1922 anche ad Ahmed Gemal, ucciso da un altro giovane armeno a Tbilisi, in Georgia. “Strana e sotto molti aspetti decisamente consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, il più intelligente e “idealista” dei tre: il “Piccolo Napoleone” dell’Impero, il propugnatore fanatico e determinato del Pan-Turanismo” (D.M. Lang). Rifugiatosi tra le tribù turche della remota regione asiatica centrale di Bukhara, dove pensava di portare a compimento la realizzazione del suo sogno, cioè la creazione di una Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver si mise a capo di una rivolta turco-mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 luglio 1922, egli venne circondato con il suo piccolo esercito da un grosso reparto bolscevico (combinazione guidato da un ufficiale armeno) e ucciso. Con la morte di Enver tramontava per sempre il progetto revanchista, di chiara matrice nazionalista e razzista, che non soltanto aveva trascinato la Turchia nel disastro del Primo Conflitto, ma che aveva contribuito a riaccendere l’atavico e mai sopito odio della popolazione turca nei confronti della minoranza armena cristiana. Oggi, a distanza di tanti anni, quell’impetuoso rigurgito di intolleranza etnico-religiosa che scatenò la persecuzione contro gli armeni, sta - paradossalmente - interessando un’altra minoranza, quella curda, che da colpevole fiancheggiatrice di una strage si è trasformata a sua volta in vittima di una logica di persecuzione assurda e spietata.


Autore:
Alberto Rosselli

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Aggiunto/modificato il 2015-04-21

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