Gesuita anti-risorgimentale, cappellano di corte del re di Sardegna Carlo Alberto, strenuo difensore dei diritti della Chiesa ma anche – come era definito amabilmente tra le mura domestiche dal fratello Silvio – «il teologo»... È la storia di Francesco Pellico (1802-1884), fratello minore dello scrittore, poeta e patriota italiano Silvio, l’autore delle immortali Le mie prigioni.
E di questo originale figlio di sant’Ignazio (di cui ricorrono oggi i 130 anni dalla morte) rimangono ancora vivi, seppur impolverati dal tempo e dall’inevitabile oblio, l’eredità, l’apostolato e lo zelo. Lo testimonia l’imponente biografia, pubblicata nel 1933 dal gesuita Ilario Rinieri, in cui emerge la figura di un sacerdote dai tratti eccezionali che si trovò a difendere i diritti della Chiesa, a sopportare l’espulsione del suo Ordine dall’amato Piemonte durante i moti del 1848, ad essere il bersaglio di feroci polemiche anticlericali ma anche a coltivare sempre un rapporto di amicizia, affetto e pietà cristiana mai venuto meno con il suo più noto fratello Silvio, il «prigioniero dello Spielberg».
Nell’Italia pre-unitaria la vicenda dei fratelli Pellico, come ha ben sottolineato lo storico Pietro Pirri, non fu l’unico caso in cui il fattore «Risorgimento » rappresentò una vera e propria «causa di famiglia»: gesuiti, negli stessi anni, erano Luigi Taparelli D’Azeglio (fratello dello statista Massimo), Giuseppe Bixio (fratello del generale garibaldino Nino) e Luigi Ricasoli (cugino del leggendario «barone di ferro» Bettino). Di 13 anni più giovane di Silvio, il futuro gesuita nacque a Torino il 2 febbraio 1802 e gli fu imposto dalla madre Margherita il nome di Francesco in onore del santo vescovo di Ginevra (Francesco di Sales); il ragazzo ebbe i primi rudimenti dell’istruzione proprio dal fratello maggiore («Francesco era scolaro di Silvio», si legge nelle memorie della sorella Giuseppina) e giovanissimo entrò nel seminario di Torino per diventare prima sacerdote secolare (1823) e poi gesuita (1834).
Strano a pensarsi però – nonostante le iniziali titubanze – Silvio Pellico (che era peraltro terziario francescano) sosterrà per tutta la vita il fratello nella scelta, in un certo senso «controcorrente », di farsi gesuita. Ma è nella metà degli anni Quaranta dell’Ottocento che il nome di padre Pellico comincerà a imporsi sulla scena pubblica:
prima come assistente dell’allora provinciale dei gesuiti piemontesi, il futuro e focoso polemista de La Civiltà Cattolica Antonio Bresciani, e poi nel 1845 quando diventerà uno dei principali bersagli (assieme al confratello Carlo Maria Curci) dei libelli (Il primato , I prolegomeni e soprattutto Il gesuita moderno) dell’abate Vincenzo Gioberti contro la Compagnia di Gesù. Toccherà infatti al giovane gesuita rispondere al suo antico compagno di studi in teologia all’università di Torino, alle accuse contro il suo ordine di essere il primo nemico della “modernità” e del “liberalismo” con il famoso scritto A Vincenzo Gioberti Francesco Pellico d.C.d.G.
Un testo che troverà il plauso pubblico del grande teologo piemontese Luigi Guala, del fratello Silvio e del re Carlo Alberto. (Nel 1852, alla morte di Gioberti, avvenuta senza sacramenti e condannato dalla Chiesa, padre Francesco pregherà per la salvezza e in suffragio del suo «antico nemico»).
Il vero annus horribilis per padre Pellico sarà comunque il 1848: da provinciale dei gesuiti piemontesi dovrà subire l’espulsione dell’ordine dal Regno di Sardegna, la consegna di tutti i beni appartenuti alla Compagnia (tra cui la gloriosa chiesa dei Santi Martiri) allo Stato sabaudo e la conseguente dispersione dei suoi confratelli; pur ridotto a vivere in clandestinità a Torino, come annota il biografo Rinieri, padre Francesco si adopererà per evitare, quasi in modo eroico, la «secolarizzazione» e l’uscita di tanti gesuiti dall’ordine e condannare, in una seppur inascoltata lettera di protesta indirizzata al Parlamento di Torino, i torti subiti dalla Compagnia e i «diritti violati» della Chiesa.
Con la fondazione nel 1850 a Napoli de La Civiltà Cattolica padre Pellico, nella sua veste di assistente dell’allora generale della Compagnia Roothaann e di censore, offrirà alla neonata pubblicazione due importanti suggerimenti: quello di rimanere «sempre una rivista popolare» e di stare soprattutto «attenti solo sulle cose del Papa». Sempre in questi anni e fino alla scomparsa di Silvio, avvenuta a Torino il 31 gennaio 1854, il gesuita Pellico, seppur dalla lontana Lione, intratterrà un rapporto di grande intimità ed affetto con l’autore de Le mie prigioni e di Francesca da Rimini, offrendogli attraverso lettere e preghiere un sostegno spirituale (come il suggerimento della recita del «Rosario Vivente» per guadagnarsi qualche «indulgenza » per la vita eterna); il tramite provvidenziale di questo rapporto speciale sarà, per i due fratelli, la sorella Giuseppina.
Dal 1854 padre Francesco diventerà, in un certo senso, il custode della memoria dell’illustre parente (tra cui un carteggio con Ugo Foscolo, ritenuto dal gesuita «poco religioso e poco cattolico» per il tenore degli argomenti trattati); sempre a lui verranno consegnati il crocefisso, i breviari e la Bibbia usati da Silvio, nel corso della sua vita, con il famoso motto del poeta: Sursum corda.
Come ultimo sopravvissuto dei fratelli Pellico, molti anni dopo, l’anziano gesuita renderà omaggio (recitando il De Profundis seguito dalle laconiche parole «Preghiamo per l’anima sua») a Saluzzo (paese natale di Silvio) alla statua eretta dall’amministrazione comunale in onore dello scrittore e patriota del Risorgimento. Sempre padre Francesco si impegnerà poi con il collegio degli scrittori della rivista che i manoscritti (tra cui molte lettere private) e le pubblicazioni del fratello Silvio fossero acquistati e conservati dall’archivio de La Civiltà cattolica.
Pochi anni dopo la morte del congiunto, nel 1859, padre Pellico si troverà a Bologna appena occupata dai piemontesi e sotto il governo di Massimo D’Azeglio, ma continuerà indisturbato a svolgere i ministeri di sacerdote grazie all’intelligente sotterfugio di apporre sul cappello da prete «una coccarda tricolore»... Nel 1870 ritroviamo il gesuita a Roma, quasi per caso al momento della presa di Porta Pia: i suoi occhi «increduli » vedranno l’uscita dolorosa e forzata di tanti suoi confratelli dalla chiesa del Gesù e dal Collegio Romano. Il resto della vita di questo religioso di razza, considerato forse a torto figlio dell’Ancien Regime, sarà dedicato alla cura delle anime e alla pratica degli Esercizi Spirituali. Concluderà il ministero nel luogo dove aveva incominciato la sua avventura di gesuita: nel noviziato di Chieri, all’età di 83 anni. E a 130 anni dalla morte rimangono forse ancora attuali le parole che gli furono tributate dall’allora preposito generale della Compagnia di Gesù, il belga Pietro Beckx: «Fu un uomo degno della lode di tutte le virtù».
Autore: Filippo Rizzi
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