Pazzo, pazzo. Pazzo per le sue montagne. Le arrampicava di giorno e persino in piena notte. Spesso da solo e talvolta senza protezioni. Vette sempre più alte, pareti rocciose sempre più difficili. Su, su, ancora più in alto. Come a volersi perdere nella potenza del creato. Pazzo per la foresta amazzonica, che - dopo la montagna - diviene la sua seconda casa. Quella foresta scura e pericolosa, che faceva terrore persino a chi, lì in mezzo, vi era nato. Ma che lui aveva la brama di esplorare: a piedi o in canoa, tra anaconde e coccodrilli più grossi di lui, spingendosi dentro, sino ad abitarne l’eremo più isolato. Pazzo per i suoi Cabocli, gli indigeni di quell’ “Inferno Verde”, dimenticati dal mondo, ma da lui follemente amati. Tanto da spogliarsi di tutto se stesso per vivere tra di loro, con loro e come loro, per oltre trent’anni. Pazzo per l’avventura, per la natura, pazzo per l’allegria e la gioia di vivere, pazzo per la vita tutta. Ma sopra ogni cosa e prima di ogni cosa, pazzo per Cristo.
Proprio così, Padre Augusto Gianola, missionario del Pime nell’Amazzonia brasiliana, era un “pazzo di Dio”. Per questo arrampicava pareti impercorribili, combatteva corpo a corpo con le bestie più feroci, abbracciava i lebbrosi più poveri e infetti, per questo si era spinto sino agli estremi confini della terra: perché incontenibile e irrefrenabile era il suo desiderio di cercare e conoscere Cristo. Solo questo lo animava nel profondo. Quando dopo una pesante insistenza con i suoi superiori, ottiene finalmente il permesso di partire per la missione, padre Augusto esclama commosso: “Partirò a mani vuote. Anzi vorrei addirittura partire senza mani, senza il mio cuore, senza me stesso. Vorrei essere distrutto nella mia povera vita, partire con il Suo cuore, con le Sue mani”. Il 5 novembre del 1963 salpa da Genova su una nave da carico, destinazione: Macapà e Parintins, nel cuore dell’Amazzonia brasiliana.
Il desiderio della santità e la missione
“Anna Maria prega perché io devo farmi santo! Ricordati di pregare, perché sono io che debbo diventare santo!”. E’ questa la concitata supplica che rivolge alla sorella Anna Maria, suora di clausura, nel giorno del suo ingresso al Carmelo. Augusto è così: la ricerca di Dio e il desiderio della santità sono in lui come un chiodo che picchia senza sosta. “Il desiderio di santità – racconta la carmelitana – era forte in lui sin da ragazzo ed è continuato tutta la vita. Penso che la spinta a diventare missionario abbia origine in questo suo desiderio di santità, di eroismo, di scegliere la via più difficile”.
Santo sì, ma la santità che medita padre Augusto non è certo quella di una pia immaginetta da contemplare. Qualche mese dopo il suo arrivo a Parintins, il 16 dicembre del 1963, Padre Gianola si rivolge nuovamente alla sorella carmelitana e le scrive: “Già qui in città la vita è molto faticosa. Qui il santo, anche se vescovo, non lo sentirai mai parlare di mistica, più o meno alta. Qui si parla di pane che non c’è. Dell’acqua che puzza (persino quella per la Messa), dei vermi che “rugano” la pancia a tutti. Dei “maruim” (di cui sono pieno dalla cintola in giù e devo resistere a non grattarmi, se no fa sangue), delle malattie. Si celebra la Messa schiaffeggiandosi per le zanzare… Eppure ti sbaglieresti di grosso pensando che io sia triste o anche un po’ scontento di essere dove sono. Anzi! Con un po’ di sforzo si riesce a trovare il lato bello, il lato che conta, almeno per l’eternità. Per questo ti chiedo che tu continui a pregare perché io possa continuare sulla strada della volontà di Dio”.
In cammino verso il vero Amore
La vita di Augusto è un incessante cammino, anzi una corsa. Talvolta spericolata. Non mancano cadute e sbagli, piccoli e grandi. C’è il tempo della crisi e dell’incertezza. Il dubbio e della vocazione. Arriva anche la tentazione, con vestiti di donna. Ma ogni singolo passo di questo cammino, serve a costruire in quest’uomo un’umanità straordinaria. Passo dopo passo il suo cuore, si fa sempre più umile e capace di amare in un modo davvero sorprendente. E’ il 5 novembre del 1986, giorno del suo compleanno e il missionario è ritirato da quasi due anni nell’Ermo del Paratucù: “Sto scrivendo alla fine del giorno del compleanno, giorno stupendo sotto tutti gli aspetti. Sapevo che sarebbe arrivato qualcuno di importante, ma non speravo così tanto. Pensavo al mio padre Armando Rizza: volevo anche confessarmi e celebrare con lui. Mi sono alzato presto e ho iniziato a preparare il cuore. Sapevo che sarebbero arrivati degli amici, perciò volevo offrire loro qualcosa di buono da mangiare. Così ho passato quasi tutta la mattinata pescando, cercando di prendere un bel pescione. A mano a mano che le ore passavano, la mia felicità aumentava. Pregavo e lavoravo: ho preparato bene il mio rocado, per mostrare agli amici un lavoro ben fatto, ho piantato la canna da zucchero, le zucche, le angurie. Poi ho cominciato a preparare la casa, pulendo tutto il cortile, la piazzetta della Madonna e perfino il viale che conduce al porto: è ancora fiancheggiato dagli ultimi bellissimi gligli, per ricevere degnamente gli amici. Ho infine preparato la cappella per la Messa. E, avvicinandosi la sera, la felicità aumentava. Quando sono scese le tenebre e mi sono reso conto che nessuno pensava a me, il mio cuore era ormai pieno, pieno, pieno di felicità: avevo fatto tutto il lavoro solo per Te, o Signore. E Tu sei arrivato”.
Il dolore che Dio trasforma in gioia
Tutta la sua missione in Amazzonia, padre Augusto la trascorre percorrendo senza sosta la foresta per cercare - una ad una - tutte le anime disperse e bisognose. Un giorno gli sembra di riconoscere, nel fitto verde della foresta, una capanna. Pare irraggiungibile. Quando don Augusto entra, ci trova una vecchietta e in un angolo, sopra un’amaca, suo figlio Antonico, lebbroso. Alla fine della visita, il missionario promette ai due di tornare con le medicine. Quattro mesi dopo, la promessa è onorata. Sul diario di Augusto si legge: “Nel frattempo l’acqua del fiume era scesa molto, la navigazione era difficile: ho incagliato il battellino. Sono arrivato da Antonico a nuoto, correndo un grande pericolo perché ero circondato da grossi pesci, ma non mi fecero nulla. Antonico stava per morire. Le piaghe erano aperte, la carne cadeva a pezzi, la faccia era piena di sangue. In questi casi bisogna sempre dare la mano e abbracciare questa povera gente, come faceva san Francesco. Non bisogna avere paura perché la lebbra non è così contagiosa come si pensa, ma intanto si dà un po’ di forza a questi poveri sofferenti”. Don Gianola non si risparmia per nessuno, anzi. Va incontro ai malati, agli infetti, agli storpi, a coloro che non hanno più nulla, se non la certezza della morte: è proprio in loro che incontra il volto di quel Dio che tanto cerca. Nella primavera del 1989, padre Augusto si sottopone ad alcuni esami clinici per dolori insopportabili che avverte da ormai un anno alla gamba e al piede. Il responso del dottor Galliani non lascia scampo: la lebbra è arrivata anche da lui.
Ecco cosa dice il missionario ad Enzo Biagi, giunto in Amazzonia per intervistarlo a pochi giorni dalla notizia: “Io sono contento di essere lebbroso. Sono felice di essere lebbroso. Non so nemmeno io perché, ma quando ho capito di essere lebbroso, una grande felicità mi ha invaso il cuore. Sono contento, contento”. Le parole sono forti come pietre nel loro messaggio di speranza, ma è lo sguardo del missionario che spalanca letteralmente il cuore. Occhi umili, docili e abbandonati in un abbraccio d’amore. Occhi che parlano d’infinito.
Suor Pinuccia da Napoli, l’altra sorella consacrata, spiega così quel messaggio tanto rivoluzionario: “Lui era certo che il passo successivo che la vita gli metteva d’innanzi, arrivasse per il suo Bene. Non era un desiderio del dolore, no. Era il desiderio incontenibile di scoprire cosa il Signore avesse preparato per lui. Perché era certo che quello che gli sarebbe accaduto, l’avrebbe aiutato ad avvicinarsi sempre di più al suo Buon Dio”. Padre Augusto si spegnerà circa un anno dopo, il 24 luglio del 1990, sulla sua tomba si legge (in portoghese): “Sono felice, perché vado a vedere in pienezza Colui che ho tanto cercato”.
Autore: Costanza Signorelli
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