Le storie di madri disposte davvero a dare la vita per il bambino che portano dentro di sé, tanto da rifiutare atti che potrebbero metterlo in pericolo, si sono moltiplicate e diffuse specie negli ultimi anni. Eppure ne esistono tante altre, che aspettano di riemergere, antecedenti perfino a quella di colei che, finora, è l’unica ufficialmente riconosciuta come Santa, Gianna Beretta Molla. È il caso di Liana Capaccioli Mazzanti, che nel 1947 ha partorito il suo unico figlio sacrificando se stessa.
La famiglia e i primi anni
Liana nasce a Firenze il 26 giugno 1920, da Aristide Capaccioli, calzolaio, e Anita Gargini, sarta. È stata preceduta da Giuliano, vissuto appena due mesi, da Giorgio e da Ovidio, anche lui morto nell’infanzia; dopo di lei è venuto Tarcisio Francesco, l’ultimo nato.
Quando ha otto anni, nel gennaio 1949, rimane quasi intossicata da una fuga di gas nella stamberga dove abita coi familiari: un furto operato dal garzone di bottega del padre, infatti, li ha ridotti in miseria. La nuova casa è presso il torrente Mugnone.
La bambina si prepara alla Prima Comunione presso le “suore francesi”. Verso la sera del giorno fatidico, la mamma si accorge che lei ha la febbre, è pallida e prova spossatezza. Il medico che la visita le diagnostica la nefrite e l’obbliga a un vitto speciale. Nonostante alcuni ritardi per malattia, completa le elementari e quindi la scuola dell’obbligo presso le suore del Sacro Cuore. Nel 1933 inizia ad andare in laboratori di sarte a domicilio per imparare il mestiere; nel tempo libero frequenta il ricreatorio delle suore francesi.
Una vera e propria conversione
Sui sedici anni, è ricoverata alla clinica San Giuseppe per essere operata di appendicite. Grazie alle suore infermiere, legge la «Storia di un’anima» di santa Teresa di Gesù Bambino, da poco canonizzata. Come per la giovane carmelitana la notte del Natale 1886, per Liana avviene una vera conversione, il 31 dicembre 1936: a partire da quel giorno comincia a scrivere il suo diario su un piccolo taccuino. «Ho pregato tanto: mi sono raccomandata al Signore perché mi mantenga sempre le mie piccole grandi idee, dette di bambina; affinché mi possa mantenere pura come un mite agnellino. L’ho pregato per la scelta del proprio stato: perché sento in me una certa confusione e incertezza».
L’impegno nella Gioventù Femminile di Azione Cattolica
Aiutata da suor Franca, religiosa con cui è entrata in confidenza, e dalle lettere di Giorgio, entrato in Seminario tre mesi dopo la nascita di Tarcisio, Liana inizia a comprendere pienamente cosa comporta l’adesione alla Gioventù Femminile di Azione Cattolica, cui è iscritta da tre anni. La mamma, intanto, riesce a trovarle un impiego più regolare: a maggio 1937 Liana comincia quindi a lavorare come operaia in una fabbrica d’impermeabili e confezioni. A luglio la famiglia trasloca di nuovo, nel rione Monticelli. Liana commenta l’accaduto e descrive il suo carattere: «È bello? Tutt’altro. È il tiranno che spesso impedisce al mio animo ardente di espandersi: è brutto il mio carattere. È chiuso, rustico, senza disinvoltura né semplicità: è selvatico come il mio nome. Dentro di me c’è proprio un contrasto: perché il mio spirito pieno di letizia vorrebbe sempre cantare, mentre il mio carattere mi fa essere solitaria, taciturna, musona… Questo carattere è la mia più grande croce… Ma ho tante gioie, ho avuto tanti e tanti doni dal Signore».
Per camminare più speditamente nella fede, si fa guidare da don Giovanni Giovani, assistente diocesano dell’Azione Cattolica di Firenze. Ma sono gli anni in cui l’associazione è minacciata dal fascismo: nel 1938, quando ricominciano le intemperanze contro i suoi membri, Liana stessa per poco non viene privata del distintivo mentre cammina con alcune amiche. Per lei l’AC non è solo un momento di evasione, ma un luogo dove conoscere il Signore nei fatti. Scrive: «Solo nelle ore in cui mi trovo con le compagne più care, specialmente nelle adunanze della GF, mi sento realmente felice. Benedetta questa associazione che trasforma le anime… Ho imparato tante cose da essa, mi ha aperto tanti orizzonti nuovi; mi ha insegnato ad amare il mio Gesù e mi ha dato un radioso ideale: portare le anime a Cristo, portare Cristo in ogni cuore».
Era lo stesso ideale che animava Delia Agostini, una ragazza di Milano, morta poco tempo prima. La sua biografia le viene prestata da colei che Liana considera la sorella maggiore che non ha mai avuto: Anna Rossi, consigliera diocesana della GF e rappresentante degli studenti.
Ogni tanto deve assentarsi dal lavoro per malattia, non senza sofferenze. Il suo animo esuberante soffre perché è bloccata a letto, il corpo è alimentato col solito vitto insipido, ma lei non si lascia deprimere: «Non mi devo lamentare; devo ricordarmi di ciò che a suo tempo mi sono proposta: mentre le mie compagne più attive si daranno all’apostolato dell’azione (come fa la “mia” Anna), io che non posso farlo, sia perché non sono capace sia per mancanza di tempo, mi dedicherò all’apostolato del sacrificio. Non domando sofferenze fisiche – dissi – perché sono debole; ma mi propongo di prendere ogni sacrificio che Dio mi manda con silenzio e sorriso».
I dubbi sulla vocazione
Nel 1940, mentre l’Italia sta per entrare in guerra, Liana s’iscrive a una scuola serale di stenodattilografia. Lo stesso anno, il 29 giugno, Giorgio è ordinato sacerdote nel Duomo di Santa Maria del Fiore a Firenze. Tutta la famiglia si sente responsabile e, anche per questo motivo, torna ad abitare nel quartiere Pignone, dov’era nata Liana.
La ragazza si lega in fretta all’AC del Pignone, tanto da diventare delegata delle Aspiranti. Durante un ritiro, ritorna in lei la questione dello stato di vita: «O mio Gesù, ho tanto bisogno di luce. Che cosa vuoi dalla tua piccola Liana? In quale via mi vuoi?». E più avanti: «Tu sai che “quella via” mi fa paura. Vedi, preferirei rimanere così, abbandonata in Te, lavorando per Te. Ma tu sai che la vita potrebbe avvincermi, con i suoi allettamenti… Sento l’attrazione, il fascino dell’ideale, ma sento nello stesso tempo l’invito alla vita. Vedi come sono misera e gretta?». È lo stesso assillo che prende Vannetta, una sua amica e compagna di associazione. Il loro gruppo è guidato da madre Leonia, delle suore Mantellate Serve di Maria di Pistoia, che accompagna entrambe a una professione religiosa nella casa madre della sua congregazione.
Nel 1942 la famiglia trasloca di nuovo, nella parrocchia di Santa Maria a Campi Bisenzio, dove don Giorgio è stato nominato parroco. Liana prova non pochi disagi: è troppo adulta per non provare il distacco, ma troppo giovane per diventare autonoma; però intanto frequenta l’AC anche lì. Intanto madre Leonia e Vannetta, nel frattempo diventata novizia tra le Mantellate, la pressano a decidersi, mentre lei riceve e respinge una prima proposta di matrimonio. Don Giorgio, intanto, le prospetta di restare in parrocchia come laica consacrata, un po’ come Giorgio La Pira, già noto all’epoca e in seguito sindaco di Firenze.
L’anno dopo, diventa impiegata in un negozio di Firenze, mentre la guerra imperversa. La confusione che prova dentro di sé non è inferiore a quella che la circonda: si sente incompresa e abbandonata perfino dai suoi familiari. Confidandosi con un frate cappuccino, riceve da lui il suggerimento di fidarsi di Dio esattamente come Abramo, che non gli negò il suo unico figlio.
L’incontro con Roberto Mazzanti
Improvvisamente, a causa della più stretta collaborazione tra le associazioni di AC delle parrocchie di Campi, entra nella sua vita Roberto Mazzanti. Il giovane aveva trascorso qualche anno in seminario, poi era diventato impiegato in una piccola ditta; militare in Tunisia, dopo l’8 settembre 1943 era tornato in Italia ma dovette nascondersi dai tedeschi.
Dopo qualche tempo, Roberto riesce a combinare un incontro con Liana e le manifesta le sue intenzioni. Lei prende tempo e gli chiede di attendere dieci giorni, dopo i quali gli darà una risposta. Lui però, dato che l’accordo non prevede che non le scriva, le manda un paio di lettere, dove le manifesta il suo desiderio: «Far crescere una famiglia sotto il santo timor di Dio». Alla fine, mercoledì 15 marzo 1944, si fidanzano. Come ogni sera, prima di andare a letto, Liana passa in chiesa per pregare e scrive: «Ho trascorso un’ora e mezza davanti a Gesù Sacramento e sarebbe follia tentare di trascrivere i sentimenti, la relazione corsa fra Gesù e me in questo tempo come mai in vita mia … È avvenuta, in quest’ora e mezzo di sfogo, di amore, di passione, una trasformazione: sono diventata una donna.
Alto, sublime meraviglioso si è elevato un grande ideale che mi ha innamorato: il sacrificio, l’abnegazione di me: ecco la mia via! Signore, abbandonata in te, tutta offerta a te, io ti chiedo con tutto l’ardore del mio cuore, con tutta la fede che in questo momento è nell’anima mia: di amare te e le anime fino all’eroismo». Le ultime parole, nel taccuino, sono sottolineate e marcate particolarmente.
Fidanzati in tempo di guerra, poi sposi
Nell’agosto 1944 Campi Bisenzio viene bombardata: Roberto Mazzanti e altri parrocchiani si rifugiano in canonica. Il 31, dopo l’esplosione di una granata sul tetto, la famiglia di don Giorgio, compresi i due fidanzati, ripara in una casa disabitata messa a disposizione dai proprietari. Solo il 3 settembre arrivano i carri armati. L’indomani Liana, in una lettera, commenta: «Il Signore ci aiuterà e provvederà. Egli ci ha salvato dalla morte e perciò vuole che la nostra vita la spendiamo tutta per Lui come gli abbiamo promesso. Insegneremo con tanto amore ai nostri bambini ad amarlo ed a conoscerlo e sarà la nostra casa una nuova Betania».
Gradualmente, finita la guerra, la vita ordinaria riprende. Liana, ora dattilografa presso il municipio di Campi, si prepara al matrimonio, impegnandosi sia nella pratica (cucina e mestieri di casa) sia nella teoria, confrontandosi col fidanzato su argomenti relativi alla vita matrimoniale. Durante il corso di preparazione per ragazze tenuto dalla GF si parla, a un certo momento, di aborto. Il parroco l’equipara al quinto comandamento, mentre qualcuna delle partecipanti afferma che, tra il bambino e la mamma, quest’ultima sia da salvare. Nel mezzo dell’accesa discussione, Liana dice la sua: quando Dio ordina di non uccidere, intende che la vita umana sia rispettata dall’inizio alla fine, a qualunque costo, perché Gesù è morto per la vita di tutti.
Liana e Roberto contano di sposarsi entro il 1945, ma lei e un’altra impiegata, Veneziana, vengono licenziate. Alla fine il matrimonio viene celebrato il 6 luglio 1946, nella chiesa di Santa Maria. I novelli sposi lasciano però la canonica e vanno ad abitare in un piccolo appartamento in subaffitto.
Incinta, ma…
In agosto Liana, conversando con un’amica, comprende di essere incinta, ma dopo un pellegrinaggio alla Verna inizia a peggiorare: la nefrite si è riacutizzata. A quel punto, il medico le prospetta l’aborto, per evitare di affaticare ulteriormente i reni. Liana, per sicurezza, è ricoverata all’ospedale di Careggi, mentre Roberto e don Giorgio si consultano con teologi e medici: gli uni confermano che abortire equivale a commettere un omicidio, gli altri incoraggiano a intervenire. Viene dimessa, ma deve restare a letto.
Un giorno, quando il marito le domanda cosa ne sarà di lui se rimanesse solo, lei si volta di scatto ed esclama: «Nemmeno tu mi vuoi più bene!». Il giorno dopo, un consulto con uno specialista suggerisce di compiere indagini ulteriori, per le quali è ricoverata in clinica, e di anticipare il parto al sesto mese di gravidanza. Tuttavia, il ritorno della febbre la far riportare a casa. Mentre Roberto spera continuamente in un miracolo, Liana si dispone a compiere il volere di Dio.
Il sacrificio e la morte
A gennaio 1947 i medici curanti notano, durante una visita, che il battito del bambino è rallentato. Un mese dopo, i valori dell’azotemia precipitano improvvisamente. Liana pronuncia quasi una richiesta indiretta: «Per me sbagliano quelli che non vogliono far sapere al malato quando non c’è più rimedio: se glielo dicessero potrebbe prepararsi, chiedere i Sacramenti. Non sanno quanto male possono fare». Il 2 febbraio si confessa e riceve la Comunione: il religioso che l’ha assistita, padre Gerardo, esce in lacrime dalla stanza.
A quel punto, il parto è ulteriormente anticipato: il 5 febbraio viene alla luce un maschio. «Chiamatelo Paolo! Paolo!», grida come può Liana, all’udire che il medico vuole battezzarlo d’urgenza, ma le sue parole successive la bloccano: il bambino è morto da circa un mese. Ancora in clinica, parla col marito: «Se Dio vorrà che abbiamo dei figlioli, saprà Lui come fare. Perché porsi tanti problemi prima del tempo?».
Al mattino del 6 febbraio sembra tranquilla, ma ogni tanto viene presa da tremiti. Mentre Roberto corre a procurarle le medicine, Liana viene assistita dalla madre. A un certo punto, le domanda: «Perché suonano le campane?». Evidentemente, nel delirio crede di essere a casa, in canonica. La madre cerca di svegliarla, ma lei continua: «Il bambino mi chiama», mentre il corpo si agita sempre di più. «Com’è lungo il corteo…», mormora, «la strada è tutta bianca…». Cade quindi un lungo silenzio, interrotto da un’esclamazione: «Che bella musica…», e da una domanda improvvisa: «Siamo tutti pronti?».
Mentre Liana torna a interpellare la madre: «Senti, li senti come cinguettano gli uccellini?», arriva Roberto con le medicine. Ormai non servono più: Liana è in coma e, prima di essere riportata a casa, riceve l’Unzione degli infermi. Don Giorgio, lontano per impegni pastorali, viene recuperato da due suoi giovani, che sperano di farlo arrivare in tempo per fargli trovare la sorella ancora viva, ma invano: quando entra da lei, il 7 mattina, la trova già morta.
Per portarne avanti il ricordo
Due anni dopo essere rimasto vedovo (in seguito si risposerà), Roberto trova un pacchetto con il diario e le lettere di Liana e decide di consegnarle al direttore spirituale don Giovanni: da lì un primo libretto, «La vita come olocausto». Nel 1978 il cardinal Giovanni Benelli, arcivescovo di Firenze, durante una visita pastorale viene a sapere di Liana e chiede a don Giorgio e all’archivista della Curia di stendere una biografia documentata. L’anno dopo lo stesso don Giorgio chiede al fratello di scriverne una, ma non viene accolta positivamente dai giornalisti e dalle personalità cui viene sottoposta. Tarcisio produce un profilo più breve, «Il Cristo più nascosto», che finisce tra le mani del teologo monsignor Carlo Colombo, che in quegli anni sta iniziando una riflessione più approfondita sulla santità delle persone coniugate.
Di fronte ai ripetuti rifiuti, Tarcisio decide di far da sé: nel 1992 stampa a spese proprie «La strada bianca», biografia basata sui suoi ricordi e sugli scritti autografi della sorella. Nello stesso anno muore don Giorgio. Quest’ultimo libro, distribuito sulla piattaforma lulu.com, è disponibile dal 2015 in una nuova edizione, arricchita da ulteriori testimonianze e da fotografie d’archivio.
I resti di Liana riposano nel cimitero della Misericordia a Campi Bisenzio, nello stesso loculo che ospita anche i suoi genitori. Tarcisio Capaccioli, invece, ha 87 anni e abita a San Donato Milanese, in provincia di Milano, ed è da sempre impegnato nel Movimento per la Vita, portando avanti i valori per cui sua sorella si è spesa interamente.
Autore: Emilia Flocchini
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