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Padre Louis Joseph Lebret Domenicano

Festa: Testimoni

Minihic-sur-Rance, Francia, 1897 - Parigi, Francia, 20 luglio 1966


«Voi cercate un profeta che vi dia di nuovo speranza e che rischiari il vostro cammino; ne avete uno in mezzo a voi; riscoprite il padre Lebret». Ecco il mandato che a metà degli anni Ottanta il carismatico e allora arcivescovo brasiliano di Recife dom Heldér Câmara consegnò durante una visita in Francia a un gruppo di giovani bretoni. E riscoprire oggi – a 50 anni esatti dalla scomparsa, avvenuta a Parigi il 20 luglio 1966 – la figura del domenicano Louis Joseph Lebret, nato nel 1897 proprio in Bretagna, a Minihic-sur-Rance (nei pressi di Saint Malo), vuol dire risalire la storia di questo religioso di razza, ex ufficiale di marina e accanito fumatore di pipa, che grazie ai suoi studi di sociologia ed economia rappresentò una guida e quasi un faro per intere generazioni di cattolici del suo tempo (tra cui Giuseppe De Rita, che lo definì «uno dei miei padri di lavoro», e Giorgio Ceriani Sebregondi).
Ma padre Lebret fu anche l’uomo che, grazie allo sguardo armonico attorno allo «sviluppo integrale dell’uomo » e «globale» del pianeta, fu scelto per volere di Paolo VI come principale redattore dell’enciclica Populorum progressio, definita da Benedetto XVI la « Rerum novarum dell’epoca moderna». Ma chi era Louis Lebret prima di vestire l’abito bianco e nero tipico dell’ordine dei predicatori? Per la prima parte della sua vita il futuro religioso con un prestigioso baccalaureato in matematica coltiva una vocazione che sarà il fulcro della sua azione di sacerdote attento ai deboli, in particolare i pescatori: uno sconfinato amore per il mare.
Per anni infatti presta servizio come ufficiale di Marina, dando un’eccellente prova di sé anche durante la prima guerra mondiale a bordo del cacciatorpediniere Bouclier. È nel 1923 che scocca nel giovane Lebret la molla a cambiare vita e a scegliere di farsi domenicano: aveva infatti accarezzato l’idea di entrare nella Trappa, ma fondamentale negli anni della sua formazione teologico-filosofica in Olanda fu l’incontro con due confratelli e maestri di autentico sapere come Antonin Dalmace Sertillanges e Barnabé Augier. A cambiare rotta alla sua esistenza – proprio come capita ai marinai esperti – è la destinazione al convento di Saint Malo in Bretagna.
Durante questa permanenza nella sua terra d’origine Lebret matura molte delle sue più importanti intuizioni: fonda qui (tra il 1932 e il 1939) il Movimento di Saint Malo e successivamente il periodico La Voix du marin. Saranno questi gli strumenti privilegiati di Lebret per sensibilizzare l’opinione pubblica francese sulle condizioni di vita dei pescatori bretoni e il loro stato di miseria e sfruttamento. Il frate domenicano comprende non solo l’importanza di valorizzare il laicato, ma anche la centralità dell’ «apostolato del mare» all’interno della Chiesa. Nel 1940 è chiamato come esperto economico al ministero della Marina mercantile.
Nel 1942 con un gruppo di laici e di domenicani fonda il centro studi e poi la rivista Economie et Humanisme. Ed è proprio in questi anni che Lebret rivestirà un ascendente fondamentale per far scoprire e quasi “infondere” al confratello Jacques Loew la pionieristica vocazione che lo renderà famoso Oltralpe: quella di diventare il primo prete operaio di Francia tra gli scaricatori del porto di Marsiglia. Nel 1947 Lebret viene invitato a tenere un corso di introduzione all’economia umana alla scuola di sociologia e politica di San Paolo in Brasile. È nell’arco di questi anni che la sua figura emerge: viene chiamato dalle Conferenze episcopali in America Latina, in Africa (tra cui l’amato Senegal che nel giorno della sua morte proclamerà il lutto nazionale) e in Vietnam per spiegare le ragioni più profonde del sottosviluppo.
Quasi nella veste di antesignano del magistero di Francesco, spiega agli importanti interlocutori incontrati nei suoi viaggi che «la misericordia non è né paternalismo, né elemosina ma è un sentimento rivoluzionario che consiste nel vivere con i diseredati e divenire uno di loro». Ormai non più giovane, il domenicano tocca con mano la miseria del terzo mondo nelle sue manifestazioni più degradanti: la fame, i tuguri, l’analfabetismo, la mortalità infantile. Certamente singolare nel 1956 il «primo giro», intrapreso a bordo di una spartana Renault 16, per conoscere il Meridione d’Italia e la sua economia.
Ad accompagnare il carismatico domenicano fu l’allora giovane studioso e futuro presidente del Censis De Rita, che in un’intervista rilasciata nel 1987 a Giampiero Forcesi per la rivista Volontari e Terzo mondo rievocò quell’esperienza: «Era un grande operatore culturale, un mobilitatore di coscienza collettiva: un uomo che faceva profezia con la memoria. Fu sempre molto scettico nei confronti dell’esperienza italiana della Cassa per il Mezzogiorno». Nel 1958 padre Lebret fondava l’Irfed ( Istituto internazionale di ricerca e formazione per lo sviluppo), un centro sorto per offrire adeguata preparazione a studenti con già alle spalle un’esperienza di lavoro nel terzo mondo. Il domenicano bretone era ormai noto ovunque: la Santa Sede lo inviò come suo rappresentante ad alcune conferenze dell’Onu.
Con l’avvento di Paolo VI nel 1964 è nominato perito conciliare: non marginale sarà il suo contributo allo schema XIII della costituzione pastorale del Vaticano II Gaudium et spes. Ma l’impronta decisiva alla sua azione, quasi un “testamento” (l’enciclica sociale fu pubblicata nel 1967: un anno dopo la sua morte), è quella lasciata nella Populorum Progressio. Attraverso i diari di padre Lebret si è potuto appurare come e quanto papa Montini abbia chiesto aiuto al suo religioso di fiducia (per cui nutriva «venerazione e devozione») per l’elaborazione definitiva del testo, in cui il domenicano propugnatore di un’«economia umana» è ampiamente citato con i suoi scritti.
Nel luglio di cinquant’anni fa padre Lebret è stato sepolto nel cimitero di Minihic, accanto ai compaesani bretoni e in faccia a quel mare che rappresentò la sua prima vocazione. «Padre Lebret è passato tra noi – fu il ricordo pronunciato a un anno dalla morte dal suo successore all’Irfed, il domenicano Vincent Cosmao – come qualcuno che sapeva, perché Dio si era impadronito di lui, l’aveva segnato nel cuore come qualcuno che non aveva altra ispirazione che perdersi in lui una volta per tutte».


Autore:
Filippo Rizzi


Fonte:
Avvenire

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Aggiunto/modificato il 2016-07-28

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