L'ultimo giorno di vita del missionario salesiano don Rodolfo Lunkenbein, 37 anni, era cominciato, come al solito, con la preghiera e la Messa. Poi il missionario era andato nella piantagione con la vecchia jeep della seconda guerra mondiale, sempre guasta.
Il capo tribù dei Bororo, di nome Aidje-Kuguri (cioè «Piccolo Ippopotamo», ma per gli amici semplicemente Eugenio) stava ancora facendo colazione nella sua casetta. In una stanza della missione la direttrice delle Figlie di Maria Ausiliatrice, suor Rita, si apprestava a uscire per sorvegliare i ragazzetti indigeni che giocavano nel torrente.
La bufera che covava da tempo scoppiò alle nove di quel mattino, quando i fazendeiros arrivarono a Meruri.
Non attaccarono subito la missione. Fermarono due agrimensori a quattro chilometri dal villaggio. Disarmarono i quattro indigeni che li accompagnavano, li minacciarono con le loro stesse armi, li fecero salire come prigionieri sulle auto e ripartirono. Raggiunsero alcune case coloniche dove si fermarono per mangiare un boccone e bere cachaça e rum. Eccitati, puntarono decisi sulla missione.
Era in corso la lotta antica per la terra. Due organizzazioni collegate con il Ministero degli Interni, la Funai e l'Incra, tutelano gli interessi rispettivamente degli indigeni e dei coloni; ma nello svolgimento dei loro compiti incontrano non poche difficoltà.
Centinaia di piccoli possidenti sloggiati dalle grandi fattorie dei ricchi latifondisti, invadevano i territori degli indigeni e lì si fissavano, in situazioni a volte di estrema indigenza. Era il caso di Meruri. La presenza degli agrimensori della Funai venuti a ripartire i terreni aveva d'improvviso rinfocolato il furore.
Quando i fazendeiros arrivarono (in tutto erano 62, armati di pistole e coltelli) desiderosi di sfogare la loro rabbia, trovarono solo un piccolo missionario, padre Ochoa. Cominciarono a malmenarlo, gridando che i missionari erano tutti ladroni, che volevano per sé le terre degli indigeni. I guerrieri bororo erano partiti una settimana prima per la caccia all'arara (il grosso pappagallo iridato) e al pecari (una specie di cinghiale).
Il piccolo missionario spintonato e insultato non sapeva come difendersi, quando arrivò padre Rudolf. Era accalorato per la fatica, e sorridente. Aveva le mani sudice di grasso, perché aveva dovuto riparare ancora una volta la jeep.
«Padre diretor, vai para a casa do Pai»
Gli invasori erano uomini conosciuti nel villaggio. Il capo Eugenio, che aveva finito colazione e si stava avvicinando, riconobbe subito Joào, Preto, e molti altri. Joào e padre Rudolf parlavano di terre e di misurazioni, e il missionario cercava di dare spiegazioni. «Non è così» diceva. «Queste misurazioni sono cose ufficiali, comandate dalla Funai...». I coloni invece si sentivano defraudati.
Allora padre Rudolf propose di fare l'elenco di tutti coloro che intendevano protestare: egli in persona avrebbe raccolto la loro protesta e l'avrebbe inoltrata alla Funai, l'organizzazione governativa che protegge gli indigeni. Così entrarono nella direzione, e padre Rudolf si sedette. Scrisse su un grande foglio uno dopo l'altro 42 nomi. Quel foglio è rimasto sul tavolo: la grafia evidentemente nervosa. Padre Rudolf non immaginava che scriveva per l'ultima volta, e che vergava i nomi dei suoi uccisori.
Sembrava tutto accomodato. Il cacico, i nove indigeni, gli agrimensori, i fazendeiros tornarono all'aperto e padre Rudolf strinse a ciascuno la mano. Gli agrimensori scaricarono da un'auto le loro attrezzature, per ricuperarle. Vennero estratte anche le armi sequestrate agli indi bororo. Al vedere quella strana operazione, padre Rudolf uscì in un'esclamazione di stupore e di rimprovero. Gli fu fatale.
João Mineiro subito lo percosse con una manata. Gli indigeni accorsero al suo fianco. Joào estrasse di tasca una rivoltella Beretta. Stava prendendo la mira quando Gabriel, uno dei Bororo, gli afferrò il polso. Nello stesso istante Preto estrasse la sua pistola e fece fuoco sul missionario. Dalla veranda suor Rita vide padre Rudolf portare le mani al petto, e la sua figura alta e robusta barcollare. Preto sparò altri quattro colpi sul missionario, che rovinò al suolo.
L'indio Simão che aveva tentato di difendere il missionario fu colpito in pieno. La madre del giovane indio, Tereza, corse presso il figlio per soccorrerlo, e ricevette una pallottola al petto. E finalmente gli assalitori fuggirono.
Saltarono sulle auto. Quattro di loro, a piedi, afferrarono il povero Luis Bispo, sedici anni, uno dei loro colpito per errore, e se lo trascinarono dietro per un centinaio di metri; poi lo abbandonarono dietro una siepe. Morto.
Suor Rita corse dove padre Rudolf giaceva nel sangue. Era vivo, ma agli estremi. Poté offrirgli solo una parola di conforto: «Padre diretor, vai para a casa do Pai» (Padre direttore, torni alla casa del Padre). Il missionario abbozzò un sorriso, poi il suo cuore si fermò.
Il sacrificio era compiuto. La Messa di Rudolf Lunkenbein era finita.
Nella notte la polizia, sopraggiunta, arrestava sette persone. Poi altre quattro. Tra esse, l'assassino di padre Rudolf.
Il Pesce Dorato
Lunke! Così lo chiamavano sua madre e gli amici, sin dai tempi di scuola in Germania, sua terra natale. Il suo nome era Rodolfo e chi lo avvicinava per la prima volta rimaneva impressionato dalla sua imponente altezza di 1 metro e 92, come una certa difficoltà per pronunciare il suo cognome tedesco: Lunkenbein!
Tuttavia, subito dopo l'impatto iniziale, chiunque si sentiva accolto dalla bontà contagiosa e dal sorriso allegro ed affettuoso di quel prete salesiano missionario. I fieri indigeni della sua missione, i Bororos, più poeticamente gli avevano messo nome “Koge Ekureu” (Pesce Dorato).
Don Rodolfo era nato il 1° Aprile del 1939, a Döringstadt, in Germania, poco prima dell'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Sentì il desiderio di essere missionario quand'era ancora adolescente, leggendo le pubblicazioni salesiane.
Sicuro della sua vocazione, don Rodolfo sbarcò in Brasile come missionario, fece il noviziato a San Paolo ed il post-noviziato a Campo Grande, come prima esperienza compì il tirocinio a Meruri, dove rimase fino al 1965.
Ritornò in Germania per gli studi teologici e la specializzazione in missionologia.
Ordinato sacerdote il 29 giugno 1969, poté ritornare a Meruri, dove i Bororos lo ricevettero con grande affetto.
Il difensore dei Bororos
Il missionario sovente aveva fatto appello alle autorità perché intervenissero. «Negli ultimi due anni era andato con frequenza a Brasilia, alcune volte accompagnato dal cacico Eugenio e dal figlio Lorenzo. «L'anno scorso Lorenzo aveva convocato un incontro di capi indigeni, svoltosi a Meruri, in cui i rappresentanti delle varie tribù avevano affrontato il problema della difesa delle loro terre».
Per conto suo padre Rudolf aveva scritto diverse lettere alla Funai e altrove, «chiedendo l'adozione di misure urgenti per evitare scontri pericolosi tra bianchi e indigeni». Per esempio nel dicembre 1974 «avvertiva le autorità degli atti ostili che venivano messi in pratica contro gli indigeni da un noto fazendeiro». E nel gennaio 1975 «lamentava che alcuni coloni avevano invaso le piantagioni degli indigeni, mettendo in libertà decine di buoi, che avevano distrutto gran parte dei campi coltivati dalla comunità bororo».
E soprattutto, scrivevano i giornali: «Si deve a lui se Funai da qualche tempo aveva iniziato il lavoro di demarcazione della riserva Bororo». Infatti una commissione del Funai, seguita passo passo da padre Rudolf, aveva compiuto i necessari rilevamenti, in base ai quali si era giunti a un inequivocabile Decreto sull'assegnazione amministrativa dell'area dei Bororos. L'ultimo passo, quello della demarcazione dei terreni compiuta da appositi agrimensori, risultò fatale a padre Rudolf.
Monsignor Thomas Balduino, presidente del Cimi (Consiglio missionario per gli indigeni), dichiarò: «Padre Rudolf non si trovava per caso dalla parte degli indigeni. Sapeva che andava a morire, che una volta o l'altra sarebbe caduto. Ma diceva che non sarebbe tornato indietro neppure di un passo».
Vivo nelle Terre Fertili
L'albero è il campanile. Nel cortile della missione salesiana, nel villaggio dei Bororo, c'è un immenso albero, un mango, da cui pendono tre o quattro spezzoni di rotaia. Percossi con una sbarra di ferro dalle suore della missione, essi suonano come campane. L'albero del mango è il campanile della missione. All'ombra di questa pianta solenne sono soliti riunirsi, alla fine di ogni settimana, gli indigeni. I loro capi dapprima conversano con i padri. Si scambiano informazioni, prendono decisioni. Poi riuniscono gli altri in cerchi, a piccoli gruppi, e lì, nella lingua Bororo discutono.
Ma quel venerdì 16 luglio 1976, mentre le ombre della sera cadevano veloci, il cortile della missione offriva un altro spettacolo. Era pieno di donne indigene che piangevano con i bebè al collo, e di cani che gironzolavano senza scopo. Nella chiesa della missione si vegliavano i corpi di padre Rudolf e del bororo Simão.
Sul fare della sera, i capi bororo che presiedono alle consuetudini e alle tradizioni, compirono per Simào il «bari-tuxene», la cerimonia in canto con cui si augura al defunto di raggiungere le Terre Fertili e molta pace.
I missionari avevano officiato una Messa, ora tutti si preparavano al seppellimento. L'orizzonte del cielo era cinto dalla fascia vermiglia del tramonto quando il corteo prese la via del cimitero passando lungo le case dai colori sbiaditi del villaggio. Un polverone si sollevava dal suolo soffice. I Bororos piangevano con il loro pianto dai toni strani, gutturali, mentre l'uccello quero-quero gracidava lì vicino. Padre Mario Gosso, della «Colonia Xavante» San Marcos, recitò le ultime preghiere leggendo alla luce di una lanterna.
All'indomani, sabato, la luce del pieno meriggio entrava dalle ventidue finestre della chiesa di missione quando cominciò la messa funebre per padre Rudolf. Sopra la cassa c'era un fantastico diadema di penne d'arara, e il morto aveva sul capo il «tiwaba etoiaba», l'ornamento riservato ai cacichi. Poco prima quattro Bororo avevano intonato gli stessi canti già eseguiti per Simão. Agitando le maracas avevano cantato e pianto. Le donne indigene sedute attorno all'altare avevano accompagnato i cantori con il contrappunto dei loro acuti lamenti.
La cassa venne poi portata lungo il cammino polveroso; apriva la marcia, tenendo alta la croce, l'indio xavante Ronema, con le orecchie attraversate da due «wed-hu», i grandi orecchini di legno. Sull'orlo della fossa, uno dei tredici missionari presenti pregò, e un Bororo, con un ornamento identico a quello del missionario morto, intonò il canto funebre.
«O o o o o o, ro-ro-ro». Così piangono tutti gli indigeni.
«Koge Ekureu» era stato ucciso perché agli indigeni Bororo fosse concesso di possedere ancora le loro terre, quelle dei loro padri, dei loro antenati. Ma essi si confortavano perché sapevano che questo cacico venuto da un paese lontano era vivo per sempre, nelle Terre Fertili dove c'è molta pace.
“Sono venuto per servire e dare la vita”
Il motto sacerdotale che aveva scelto per l'Ordinazione era “Sono venuto per servire e dare la vita”. Nella sua ultima visita in Germania, nel 1974, sua madre lo pregava di fare attenzione, perché l'avevano informata dei rischi che correva suo figlio. Lui rispose: «Mamma, perché ti preoccupi? Non c'è niente di più bello che morire per la causa di Dio. Questo sarebbe il mio sogno”.
Autore: Don Teresio Bosco SDB
Fonte:
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Bollettino Salesiano
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