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Padre Alfeo Emaldi

Festa: Testimoni

Lugo di Romagna, Ravenna, 15 marzo 1902 - Como, 14 agosto 1976


Aveva sei anni, quando una domenica mattina, ritornato da Messa, disse alla mamma: «Il parroco è andato sul tetto e ha cominciato a urlare contro tutti!». «Come? È andato sul tetto?». «Sì, ha preso a salire la scala e poi non l’ho più visto». In realtà, il parroco era salito sul pulpito a fare la predica. La mamma capì che il figlio era molto miope e lo portò subito dall’oculista. Ma difficoltà gravi alla vista ne avrebbe avute sempre.
Si chiamava Alfeo Emaldi, il bambino che portava occhiali spessi come fondi di bottiglia. Era nato a Lugo di Romagna (Ravenna) il 15 marzo 1902, ed era minuto e fragile come uno scricciolo. Dai genitori riceve una fede forte come la roccia e una gran voglia di lavorare. Appena finite le elementari, dice: «Voglio farmi prete».

Guarito dalla Madonna

Entra in seminario a Ravenna e frequenta con profitto il ginnasio. È però inquieto come se un fuoco acceso lo bruci dentro. Vede, davanti a sé, orizzonti vasti come il mondo. Gesù lo trafigge con una parola: «Andate e predicate il mio Vangelo a tutte le genti» (Mc 29,19). Il rettore lo accontenta: «Ti manderò da Mons. Conforti, lui ha bisogno di missionari».
Mons. Guido Conforti (1865-1931), allora vescovo di Parma e recentemente proclamato beato, aveva fondato a Parma i Missionari Saveriani, tra i quali, il 19 agosto 1919, Alfeo è ammesso a studiare. Ma è debole e malaticcio, e quando dilaga la “spagnola”, una grave epidemia influenzale, si preoccupa solo di curare i compagni malati, perché lui, stranamente sta bene. Ma presto si trova a letto con un’incipiente tubercolosi. Piange amaramente per il timore di non poter più diventare missionario. Lo mandano a curarsi in una località salubre presso Vicenza. Alfeo sale al santuario di Monte Berico e lassù prega la Madonna con la fiducia di un bambino. Rapidamente guarisce e da allora, ripeterà sempre: «Più che le medicine, fu la Madonna a guarirmi».
A Parma, intraprende il noviziato cui seguono gli studi teologici. È buono, allegro, un gran burlone e amico di tutti. Il 2 febbraio 1926, è ordinato sacerdote. Pochi giorni dopo, il suo vescovo e fondatore, lo destina per la Cina. A lui e ai missionari in partenza, Mons. Conforti ricorda: «Cristo ve l’ha detto: vi mando come agnelli in mezzo ai lupi... ma non abbiate paura, perché io ho vinto il mondo. Anche voi, appena vinti, sarete vincitori».
Il 26 febbraio 1926, don Alfeo parte da Venezia e il 19 maggio, arriva a Cheng-chow, sulle sponde del fiume Giallo, dove già lavora un gruppo di Saveriani. Comincia subito, deciso, a studiare la lingua, una delle più difficili del mondo, ancor più difficile per lui che ci vede poco. Ascolta più che può, gioca con i bambini. Così un mese dopo il suo arrivo, tiene la prima predica in cinese, fa catechismo e si accorge che la gente lo capisce.

Migliaia di conversioni

È mandato a Loyang, come collaboratore del superiore Padre Armellini. Nel 1928, è rettore della cattedrale di Cheng-chow, nel 1932, di quella di Loyang. Questi sono i suoi titoli ufficiali, ma padre Alfeo è solo un missionario che ama dire: «Sono venuto qui per annunciare Cristo e convertire i cinesi a Lui». Si fa subito amare, da credenti e non, per la sua dedizione e per la gioia che diffonde attorno a sé, così che lo chiamano presto: «Padre Gen Manté», il Padre della bontà.
Inforca la bici e si butta a visitare tutte le piccole comunità cristiane disseminate, come gocce, tra i templi buddisti, percorrendo strade e valli interminabili, raggiungendo i luoghi più sperduti, passando incolume tra squadre di banditi e non temendo i rivoluzionari di un certo Mao-tse-tung, che già fa parlare di sé. Ritorna alla base, dopo settimane di lavoro, affamato e coperto di pidocchi, canterellando tra i denti una canzone in dialetto romagnolo. «Alfeo, gli domandano i confratelli, non hai incontrato i banditi?». «È impossibile, perché io cammino sulle vie di Dio e loro su quelle del diavolo!», oppure: «Forse, ma son così miope che non li ho visti!».
Ormai non solo parla cinese, ma mangia come loro e condivide le loro abitudini, anche se gli costa terribilmente, pur di guadagnarli a Cristo. Non aspetta mai che lo cerchino, va lui a cercare la gente: nelle abitazioni, nei campi, per le strade, al tramonto del sole, quando quelli ritornano dalle risaie. Conversa per ore e ore con loro e, forte della grazia di Dio, li convince che solo Gesù è la Verità, l’unico Salvatore dell’uomo. Occupa le sere e le notti con il catechismo, che spiega personalmente alla gente semplice, mentre prepara catechisti capaci e appassionati. Apre ovunque scuole di catechismo. Per vivere gli bastano una tazza di riso e tre pezzi di patate con una cipolla. Quanti cinesi abbia condotto a Cristo e battezzato, è difficile dire: sicuramente un numero grandissimo. Un colonnello dell’esercito cinese, che lui ha convertito dal buddismo, un giorno dichiarò ai suoi soldati: «Io credo tutto ciò che insegna la Chiesa Cattolica e lo credo perché lo insegna il padre Alfeo, che non può ingannare nessuno, perché è più santo di Budda. Soprattutto ciò che insegna, lo pratica, lo vive ogni ora, ogni momento della sua vita». È così stimato anche dai non cristiani che essi sovente lo accolgono in casa. Nella valle del fiume Giallo, tutti lo conoscono. Per loro, soprattutto nelle ore del dolore, ha una carità incomparabile: nessuno si allontana da lui senza essere stato aiutato. Padre Alfeo contraccambia con il dono più grande che si possa dare: Gesù.

Notte di martirio

Dal luglio 1938 al novembre 1944, è a Tient-sin come cappellano dell’ospedale, dove segue i malati come un padre e una madre insieme. Ritorna a Loyang, come rettore della cattedrale e superiore religioso della zona. Nel maggio 1947, è richiamato in Italia, ma viene fermato a Shangai e destinato alla nuova missione saveriana dello Shantung, dove rimane fino al giugno del 1949, quando rientra a Tient-sin. Dovunque ha collaboratori, catechisti, suore, giovani ferventi, che lo aiutano a seminare il Vangelo. Organizza l’Azione Cattolica e la Legio Mariæ. In un anno solo, a Tient-sin, fa 1.700 cristiani. I comunisti di Mao, che già perseguitano mortalmente i credenti e stanno per prendere il potere con la violenza, per lungo tempo, non riescono a bloccarlo. Ma, una sera d’inizio novembre 1951, 20 poliziotti comunisti lo arrestano con i fucili spianati, urlandogli: «Tu sei un delinquente». Lo chiudono in una cella, guardato a vista. Tutte le notti, vengono a interrogarlo e lo accusano di ogni sorta di intrighi. Padre Alfeo ribatte lucido e stringato, demolendo le loro accuse. Il 16 novembre 1951 gli chiedono i nomi dei collaboratori e cosa dica e senta in confessionale. Padre Alfeo tace. I comunisti gli dicono: «Domani torneremo e sapremo noi come farti parlare». Durante la notte passeggia su e giù per la cella, invocando la Madonna, fino a quando scorge una lametta da barba sul tavolo. Egli stesso racconterà più tardi: «In quel momento ho pensato, se fossi muto, non potrei parlare. Domani, invece, chissà che mezzi useranno quelli perché io tradisca la mia coscienza e i miei fedeli! Allora, presi coraggio, tirai fuori la lingua e con la lametta, l’amputai il più possibile. Il sangue zampillò fino sulla parete di fronte. Non so perché improvvisamente la sentinella aprì la porta e vide tutto quel sangue. Spaventato, diede un grido di orrore ed uscì dando l’allarme. Mi portarono in gran fretta all’ospedale, dove un medico mi ristagnò il sangue».
I comunisti mi rimproverarono di aver fatto un atto ostile al governo, e poi emisero la sentenza: espulsione dalla Cina, per tutta la vita. Il 3 dicembre 1951 ero già arrivato in Italia.
Piuttosto di tradire il segreto inviolabile del confessionale, Padre Alfeo aveva preferito restare muto. Ma muto non lo sarà mai, anzi, riprese subito a parlare. Celebrò la Messa nella casa generalizia a Roma e ricordò la sua stupenda avventura cinese, vissuta per Cristo. La sua storia uscì su tutti i giornali. L’8 dicembre tornò a Lugo di Romagna dai suoi genitori. All’arrivo, intonò una canzone che la mamma gli aveva insegnato da bambino. La mamma gli rispose cantando la seconda strofa.

Avanti gioventù

Proprio quando la sua missione sembrava esser terminata, decise di percorrere tutta l’Italia a parlare dell’urgenza di annunciare il Vangelo a coloro che ancora non lo conoscono e non lo amano. Una sera del maggio 1954 parlò al teatro di Vicenza, pieno di giovani. Iniziò ricordando, quando molto malato, era salito al Monte Berico a chiedere la guarigione alla Madonna, e continuò: «Non mi pentii mai dei miei 25 anni passati in missione. Non si pente mai chi fa del bene ai fratelli. C’è un pentimento che diventa terribile, quando uno arriva alla fine della vita e deve riconoscere: ho sentito la chiamata di Dio e non ho risposto».
I giovani si alzarono in piedi ad applaudirlo. Alfeo proseguì, implacabile: «Avanti gioventù! Ci sono nelle terre lontane milioni e milioni di anime che aspettano Cristo e Lui attende degli apostoli che lo portino loro. Questa folla sconfinata tende le mani a voi. Chi vive pacifico, godendosi ciò che ha, è un meschino egoista che non merita di essere chiamato giovane. Gioventù significa allegria, amore a Cristo e ai fratelli più soli!». E dovunque terminava i suoi incontri dicendo: «I comunisti in Cina passeranno e allora, noi missionari ritorneremo in quella terra, piena di anime che aspettano la Redenzione!».
Dal 1955 al 1962, fu direttore spirituale nelle case saveriane di Nizza Monferrato e di Parma; poi, dal 1962 al 1974, confessore al noviziato di Pozelo in Spagna. Anche lì, nessuno riuscì mai a fermarlo. Percorse le province di Barcellona, Valenza, Pamplona e Navarra con lo stesso ardore con cui aveva lavorato in Cina. Al primo posto, come sempre, la Santa Messa, la preghiera prolungata davanti al Tabernacolo, il Rosario intero alla Madonna, per la salvezza del mondo. Sempre allegro e spiritoso, ancor più giovane nel cuore e nello stile. Con la sua lingua mozzata tenne 570 conferenze in tutte le regioni della Spagna. A chi si stupiva, rispondeva, serio: «La lingua mi è di nuovo cresciuta!».
Nel 1974, per consiglio del medico, padre Alfeo ritornò a Parma, ma non si arrese: diventò il padre spirituale di tutti i confratelli, degli studenti di teologia e di molti giovani che venivano a cercarlo. A tutti sapeva regalare ottimismo e gioia.
Ricoverato all’ospedale di Como, per il cuore che cedeva, il 14 agosto 1976, vigilia dell’Assunzione di Maria, passerà la festa accanto alla sua mamma celeste. Un attacco cardiaco lo portò a contemplare in eterno quel Gesù per il quale aveva consumato la sua vita.
Chi scrive non dimenticherà mai padre Alfeo Emaldi, incontrato nella propria parrocchia, una domenica d’ottobre del 1956, in una stupenda giornata missionaria, quando davanti a tutti disse:
«Mi sono tagliato la lingua per non tradire Cristo. Dovevo essere muto, invece sono qui a predicare Lui. Il mondo non può andare avanti senza di Lui. Per questo nessuno potrà mai farci tacere. Anche senza lingua, parleremo ancora di Gesù, di Gesù solo!».


Autore:
Paolo Risso

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Aggiunto/modificato il 2017-10-09

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