“L’anno della morte del re Ozia, io vidi il Signore seduto su di un trono grandioso e soprelevato. Il lembo del suo manto riempiva il santuario. Dei Serafini stavano al di sopra di lui, avendo ognuno sei ali, due per coprirsi il volto, due per coprirsi i piedi, due per volare. Essi gridavano l’un l’altro queste parole: “Santo, Santo, Santo è Yahvè Sabaoth, la sua gloria riempie tutta la terra” (Is 6,1-3).
Ecco il solo passo biblico che pone in scena i Serafini. La parola ebraica che nomina questi spiriti superiori significa «ardente». Poiché sono i più vicini al trono divino, essi ardono perpetuamente dell’amore di Dio che hanno per missione di comunicare al resto dell’universo.
Se ci si riferisce a San Paolo, egli non pone alcun dubbio che, delle tre virtù teologali, la carità, l’amore di Dio, è la prima. È dunque ragionevole guardare gli spiriti dell’amore divino come i principi della gerarchia celeste, cosa che fecero Cirillo di Gerusalemme, Giovanni Crisostomo e Gregorio di Nazianzio. Non è pertanto che alla fine dei IV secolo che le Costituzioni apostoliche hanno aggiunto il nome dei Serafini alla lista degli angeli riconosciuti dalla Chiesa, basandosi sul passo di Isaia.
È questo stesso capitolo di Isaia che permette allo Pseudo-Dionigi di aggiungere una precisazione supplementare: i Serafini sono dei purificatori col fuoco, purificazioni operate con l’intermediazione degli angeli inferiori.
San Tommaso d’Aquino mette in evidenza il ruolo eminente del primo ordine: istruzione dei cori inferiori facendo loro conoscere ciò che essi ignorano, illuminazione con la comunicazione del modo di conoscenza più perfetto, e perfezionamento con l’approfondimento della conoscenza. Appartiene ugualmente ai Serafini il compito di consumare nelle anime quello che impedisce la loro conformità a Dio e di infiammarle d’amore.
San Tommaso pensa ugualmente che questa eminenza dei Serafini impedisce loro di manifestarsi direttamente agli uomini, di compiere le missioni terrene, ed egli rifiuta, per questo, l’identificazione dei tre grandi Arcangeli della Bibbia – Michele, Gabriele e Raffaele – a dei Principi serafici. È vero che, in questo campo, né la pietà né la tradizione sono d’accordo con l’insegnamento tomista.
In origine Lucifero deteneva il primato sugli altri spiriti angelici, che lo identificava al primo dei Serafini. Questo rango passò di diritto al suo vincitore Michele che era, anch’egli, fin dall’origine, un Serafino, e senza dubbio il secondo di Lucifero.
L’amore mistico è accettazione piena e intera dell’associazione alla Croce. Accettazione di cui una delle eventuali manifestazioni visibili è il fenomeno della stigmazione. Bisogna meravigliarsi se le apparizioni serafiche vanno di pari passo con l’imposizione delle stigmate?
Il Serafino e le stigmate
Soffrire per amore di Cristo e delle anime, tale è la preghiera che, il 14 settembre 1224, festa dell’Esaltazione della Croce, Gian Francesco Bernardone, San Francesco d’Assisi, osa pronunciare.
Sono passati tre anni da quando Francesco, ammalato, provato nell’anima e nella carne, ha rinunciato a dirigere le sue fondazioni religiose scegliendo di ritirarsi nella solitudine del monte Verna. È là che egli redige l’ammirabile Cantico delle creature, primo capolavoro della letteratura italiana.
Quel 14 settembre, Francesco, che sente la sua fine prossima – egli non avrà più che due anni da vivere – implora Dio : “Signore Gesù, non vi sono che due grazie che io Vi domando di accordarmi prima della mia morte : la prima è che, per quanto potrò, io risenta le sofferenze che Voi, o mio dolce Gesù, avete dovuto subire nella Vostra crudele passione ; la seconda, che io risenta nel mio cuore, per quanto potrò, quell’amore smisurato di cui Voi bruciate, Voi, il Figlio di Dio, e che Vi ha condotto a soffrire volentieri tante pene per noi, miserabili peccatori”.
Come fa questa richiesta, Francesco vede quello che descriverà “come un Serafino, avendo delle ali splendenti e tutte di fuoco, che scende verso di lui dalle altezze del cielo. Ed allora, apparve tra le sue ali la visione di un uomo crocifisso”.
I Fioretti di San Francesco raccontano con letizia infinita il colloquio del monaco e dell’angelo, che gli chiede se è pronto a ricevere tutto quello che l’Amore gli darà. E come Francesco, beninteso, accetta, le piaghe del Crocifisso si vanno miracolosamente a imprimere nelle mani, nei piedi e nel costato del Poverello. La sofferenza fisica è atroce, ma essa si accompagna ad una gioia e ad un ardore che non sono più di questo mondo.
Fuoco ardente, l’angelo che incontra Francesco non potrebbe essere che un Serafino. Tre anni prima, nel 1221, Francesco e alcuni dei suoi frati avevano intrapreso il pellegrinaggio al grande santuario micaelico dell’Italia meridionale, la basilica sul monte Gargano in Puglia. La devozione di Francesco verso Michele era così grande che, preso da scrupoli, il Povero di Assisi non si era giudicato degno di entrare nella chiesa dell’arcangelo… I suoi frati, stupefatti, lo avevano ritrovato al mattino prosternato sul pavimento dove aveva passato la notte.
Il Serafino del monte Verna, è San Michele? La visione di Francesco è suscitata dalla sua fede e dal suo amore? La scienza moderna ha abbondantemente constatato sugli stigmatizzati contemporanei che l’autosuggestione non basta, nello spiegare le stigmate, non potendo provocare simili lesioni cutanee, né emorragie comparabili.
Più stupefacente ancora, le ferite di certi mistici sono così gravi che è medicalmente impossibile comprendere come essi non muoiano in alcuni minuti…
Carmelo d’Alba de Tormés, provincia di Salamanca, 4 ottobre 1582. La madre Teresa Sanchez Cepeda y Ahumada soccombe al cancro di cui soffriva da alcuni anni. Nessuno prova più verso la Riformatrice dell’Ordine i dubbi e i sospetti che circondavano gli inizi del suo compito. La santità di Teresa è ormai chiara davanti al mondo. In queste ore che seguono la sua morte ci si disputa le sue reliquie. Non ha fondato sedici conventi che si giudicano tutti in diritto di ricevere le sue spoglie? Il corpo di Teresa che, a dire dei testimoni, spande un profumo meraviglioso e affatto cadaverico, sta per disseccarsi. Il cuore della superiora viene estratto: i medici e le persone presenti tacciono, rapiti: il cuore di Teresa porta, perfettamente visibile, una ferita come quella di un colpo di lancia. (Il cuore di Santa Teresa d’Avila è conservato nel Carmelo di Alba, intatto; la ferita misteriosa è sempre apparente e imbarazza ogni spiegazione medica. N.d.R.). Una ferita di cui la carmelitana soffriva senza che fosse visibile. La cosa era iniziata in modo singolare.
“Il Signore volle a più riprese che io avessi questa visione: vidi un Angelo vicino a me, dal lato sinistro, sotto forma corporale, cosa che non mi accade che da un miracolo straordinario. Benché, spesso, degli Angeli mi appaiano, io non li vedo, se non da una visione intellettuale […]. Questa visione, il Signore voleva che io la vedessi così ; egli non era molto grande, piuttosto piccolo, bellissimo, il volto talmente infiammato che sembrava essere un Angelo di un rango molto elevato, di quelli che non sono che fuoco. Deve essere di quelli che si chiamano Cherubini, perché non dicono il loro nome. Ma, io vedo bene che, in cielo, vi è una tale differenza da un Angelo all’altro e da questi a quelli, che non saprei dirlo. Io lo vedevo, nelle mani, un lungo dardo che era d’oro, con una punta di ferro che mi sembrava avere un poco di fuoco. Mi parve che egli lo immergesse nel cuore, a più riprese, e che questo dardo mi penetrasse fino alle viscere. Estraendolo, mi sembrò che mi trascinasse con lui e che mi lasciasse tutta infiammata da un grande amore di Dio. Il dolore era così forte che mi produsse i gemiti che ho detto. E così eccessiva era la soavità che poneva in me questo estremo dolore che non si vorrebbe che fosse terminato, e che l’anima non può accontentarsi che in Dio. Non è un dolore corporale, ma spirituale, benché il corpo non lasci di parteciparvi, e anche abbastanza duramente. È una carezza così soave tra l’anima e Dio, che io supplico la Sua bontà di farla gustare a quelli che penseranno che io menta” (Santa Teresa d’Avila, Autobiografia).
Non giungendo le pretese spiegazioni psicanalitiche, che fanno allusione a un delirio erotico e all’autosuggestione, a fornire una spiegazione a questa piaga reale e constatabile, occorre ammettere che Teresa ha avuto la visione di un angelo. La sua descrizione di uno spirito ubriaco dell’amore divino tenderebbe a lasciar credere che si trattasse di un Serafino anziché di un Cherubino.
Questo tipo di fenomeno mistico, detto transverberazione, non costituisce per nulla un caso unico. L’esempio più recente, e dei meglio studiati, è quello di Padre Pio, morto solamente nel 1968, stigmatizzato e transverberizzato.
La devozione che portava il sacerdote cappuccino agli angeli, di cui era familiare, e particolarmente a San Michele – il monte Gargano non è che a una trentina di chilometri da San Giovanni Rotondo, il convento di Padre Pio -, la sua tenerezza verso San Francesco, suo Santo patrono (al secolo, Padre Pio si chiamava Francesco Forgione e i Cappuccini sono un Ordine francescano), hanno spinto parecchie persone a chiedergli se questi fenomeni erano ugualmente di origine serafica. Padre Pio fa allusione a un essere di luce di cui egli non precisò mai se era un angelo; per contro, affermò sempre aver ricevuto le stigmate direttamente dal grande crocifisso dell’altare, alla fine della sua Messa del 20 settembre 1920 (questo non impedisce a molti di attribuire le stigmate a un Serafino, fabbricando così, più o meno coscientemente, un doppione della stigmatizzazione di San Francesco…). In conclusione Serafino, dall’ebraico saraph: bruciare.
Serafini: compiti e invocazioni
Questo è il primo coro della gerarchia suprema degli angeli. Il nome Serafino è la forma plurale della parola; la singolare è Serafo. Questo nome è presente solo due volte nella Sacra Scrittura. Si trova nel sesto capitolo di Isaia dove essi vengono descritti mentre si trovano presso il Trono dove il Signore è seduto, ognuno ha sei ali, e cantano costantemente l’inno di gloria: santo, santo, santo. La descrizione dataci qui dal profeta, il loro vero nome, che significa «coloro che ardono», la loro posizione presso il Trono dell’Altissimo Dio, l’atto di purificare le labbra del profeta col fuoco (un carbone vivo preso dall’altare) sono tutte circostanze che in una forma sensibile rivelano la posizione elevata dei Serafini nella Corte del cielo. “Io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato, e i lembi del suo manto riempivano il tempio. Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi, e con due volava.”
Il significato di coloro che ardono, implicito nell’etimologia del nome Serafino, deve essere compreso sia in senso transitivo che intransitivo del verbo. Nella sua epistola al Papa Damaso, San Girolamo (347 ca.- 419) nota che Serafini tradotto dal greco significa «quelli che infiammano», o «quelli che ardono». Vengono descritti ognuno con tre paia di ali, con uno dei quali si coprono il volto come un atto di profonda riverenza e per non essere guardati, con un altro si coprono i piedi per modestia e rispetto, con il terzo volano. Sembra essere implicita una generica rassomiglianza alla figura umana, ma non è detto che il loro volto somigli al nostro. L’amore di Dio per il quale essi ardono li mantiene vicini al trono della Divina Maestà, ma la loro profonda umiltà e riverenza fanno sì che essi interpongano le loro ali tra se stessi e gli splendori della Gloria dell’Altissimo.
Il compito principale dei Serafini è di cantare incessantemente a Dio, celebrando soprattutto le altre caratteristiche della sua santità, una perfezione che caratterizza tutte le qualità di Dio, poiché santa è la sua Giustizia, santa la sua Bontà, santa la sua Grazia, santo il suo Potere, santa la sua Bellezza, santa la sua Saggezza, ecc. Infatti l’inno serafico di gloria ascoltato dal profeta Isaia era il seguente: “Santo, santo, santo, il Signore Dio degli eserciti, tutta la terra è piena della sua gloria”. La veemenza dei loro sentimenti e della loro devozione risulta dal fatto che il loro canto è un grido così potente che “gli stipiti delle porte vibravano alla voce di colui che gridava,” cioè i Serafini che “gridavano l’uno all’altro”. Il tempio dove avvenne la visione era pieno di fumo, un simbolo forse di quel fuoco d’amore dei Serafini, “coloro che ardono.”
Un altro compito risulta chiaro nella visione di Isaia dall’azione di uno dei Serafini, cioè quello della purificazione per mezzo del fuoco: “Uno dei Serafini volò verso di me: teneva in mano un carbone ardente, che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e mi disse: “Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità, e il tuo peccato è espiato”.
Dalla nozione di ardore contenuta nel loro nome, era ovvio alla mente popolare guardare i Serafini come gli spiriti dell’amore. Serafico, oggi, è chiamata una persona la cui vita è completamente dedita al divino amore, come il serafico San Francesco d’Assisi, la serafica Vergine d’Avila, Santa Teresa la grande e Santa Caterina da Siena.
Secondo lo Pseudo-Dionigi “il nome Serafino indica chiaramente la loro eterna e incessante rivoluzione riguardo ai Principi divini; il loro calore e la loro passione, l’esuberanza della loro intensa, perpetua, instancabile attività, e la loro elevata ed energetica assimilazione di quelli sotto, compiacendoli e infiammandoli col loro stesso calore, e purificandoli completamente con una fiamma ardente, e con il lampante, inequivocabile, immutevole, radiante e illuminante potere, che disperde e distrugge le ombre dell’oscurità”.
Nella classifica elaborata dallo Pseudo-Dionigi e ripresa dalla Tradizione, i Serafini occupano il primo posto al vertice della gerarchia.
Essi, come già accennato, non sono stati citati e descritti che da Isaia (6,1-4). Visione grandiosa sottolineante la maestà del Dio tre volte santo, visione terribile che riempì il profeta di timore, fino a che uno degli spiriti celesti, avendogli toccato le labbra con un tizzone ardente, non lo abbia purificato in vista della missione che Dio vuole confidargli. Di gran lunga più chiara nei termini delle preghiere divine è la visione liturgica dei Serafini in Isaia (6,2). Sono significativi non solo il ”Sanctus” che essi cantano alternativamente ma anche i dettagli della visione: lo strascico del mantello di Dio avvolge il santuario; gli stipiti delle porte del tempio tremano sotto il grido risonante dei Serafini; il tempio che si riempie di fumo. Quest’ultimo particolare forse ricorda la nube del Sinai che rappresenta la presenza divina. Allo stesso tempo il simbolismo liturgico delle nubi odorose di incenso non è estraneo all’immagine. «Tutta la terra è piena della sua gloria» (6,3).
Il sito di culto della preghiera angelica è individuato in questo testo nel tempio dove Yahwéh ha posto la sua dimora, è presente in maniera salvifica tra la sua gente.
Allo stesso tempo, tutto Israele si unirà nella preghiera dei Serafini. Il Sanctus viene ad essere incorporato nel Kedushah, liturgia della sinagoga, che formava una parte di una più ampia preghiera, il Schemoneh Esreh, ed era recitata dopo la terza benedizione:
Tu sei santo, e santo è il tuo nome,
e santo è colui che ti prega ogni giorno.
Benedetto sei tu, Signore, santo Dio.
Lettore: Santificheremo il tuo nome nel mondo
così come essi lo santificano nel più alto dei cieli,
come è scritto per mano dei tuoi profeti:
ed essi gridano l’uno all’altro dicendo:
Congregazione: Santo, santo, santo, è il Signore degli eserciti con te,
la terra è piena della tua gloria (Is 6,3).
Lettore: A quelli paragonati a loro essi dicono, benedetti.
Congregazione: Benedetta sia la gloria del Signore
Dal luogo della sua dimora (Ez 3,12).
Lettore: E nelle tue sante parole è scritto:
Congregazione: Il Signore regnerà per sempre, tuo Dio,
o Sion, per tutte le generazioni. Alleluia (Sal 145,10).
Lettore: Su tutte le generazioni proclameremo la tua grandezza,
e per l’eternità benediremo la tua santità;
e la tua preghiera, o nostro Dio, non si allontanerà
mai dalla nostra bocca perché tu sei
un Dio e Re grande e santo.
È certamente un bellissimo brano di liturgia, e costituisce in un certo senso un’unione di preghiera tra angeli e uomini, nonostante persino qui quest’unione non sia formulata espressamente. Dal punto di vista storico, comunque, Kedushah è di una tale e tarda origine (post- biblica) che va al di là dei confini del presente studio. Infatti potrebbe essere persino così tarda da essere ragionevolmente preclusa come una fonte storica del Sanctus nella liturgia della Chiesa.
Autore: Don Marcello Stanzione
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