Poche notizie storiche ci raccontano il passato di Elisabetta (Lisabetta o Isabetta) Fornoni, nativa di Arese (o di Ardesio), figlia di Antonio de’ Forno de’ Bonvicini la quale conduceva una vita “mondana”, fino al giorno in cui ascoltò nel Duomo di Brescia un predicatore che la convinse a cambiar vita. Correva l’anno 1499. Scelse di ritirarsi a vita monastica in stretta clausura presso la chiesa di S. Urbano, affidatale in custodia dall’arciprete del duomo, alle pendici meridionali del colle Cidneo. Dedicò il resto della sua vita alla preghiera, divenendo un modello.
Nel 1506 alla Fornoni si unirono due compagne: Maria di Faustino da Crema e Diodata Calvatti da Collio e fu eretto un convento presso la chiesa. Nel 1512 vi trovarono “rifugio” numerose donne che avevano subito violenze durante il sacco di Brescia ad opera di Gaston de Foix, nipote del re francese Luigi XII. Il sacco ebbe luogo in febbraio, a causa della guerra della Lega di Cambrai, voluta da diversi stati europei per arrestare l'espansione della Serenissima in terraferma. Lo scontro tra le truppe francesi e quelle veneziane causarono migliaia di vittime tra i soldati, un terribile saccheggio della città e il massacro di migliaia di civili. I soldati francesi non rispettarono neppure i luoghi di culto massacrando la popolazione che vi si era rifugiata.
Papa Leone X aggregò la comunità di Sant'Urbano, con a capo Elisabetta, all'ordine agostiniano. Erano “fanciulle pericolate o cadute, delle giovani peccatrici che volevano redimersi”. Nel 1512 fu aperta anche una chiesa intitolata a S. Maria della Vittoria in S. Urbano. La bolla di erezione del monastero di “penitenti murate” fu concessa nel 1513. Due anni più tardi la città dovette subire nuove violenze, questa volta perpetrate da soldati spagnoli.
La denominazione “murate” indicava già altre comunità di monache, solitamente per evidenziare la stretta clausura. Esempi un monastero fiorentino e uno a Città di Castello. A Firenze nel 1400 un gruppo di donne, volendosi staccare totalmente dal mondo, si fece “murare” all'interno di una modesta abitazione in “reclusione” volontaria, avendo annessa una piccola cappella per i sacramenti e la Messa. La comunità assunse poi la regola benedettina. A Città di Castello, invece, l’appellativo fu dato alle clarisse, il cui monastero, ai primi tempi della fondazione esposto a numerosi pericoli, per ben due volte venne incendiato. Nel 1411 le religiose poterono trasferirsi entro le mura cittadine da cui l’appellativo del monastero.
La Regola data a suor Elisabetta e compagne fu simile a quella delle Mantellate Agostiniane di S. Croce, redatta nel 1521. La comunità pianse la morte della sua Fondatrice il 25 marzo 1525.
Dalle cronache sappiamo che dieci anni più tardi il convento contava ventitrée professe e due novizie. Vi fece il suo ingresso una parente di suor Elisabetta, Nicolosa, che vestì l’abito nel 1537 e professò nel 1538. Nel 1582, a causa dell'alto numero di suore, san Carlo Borromeo ordinò il loro trasferimento presso l’ex convento degli Umiliati di Gambare dedicato a Santa Maria Maddalena. Le religiose mantennero la proprietà di Sant'Urbano il cui edificio fu coinvolto nel 1588 nelle opere di fortificazione del Castello. La chiesa di Sant'Urbano venne affidata a una confraternita fino al 1797, anno di soppressione della comunità agostiniana.
Rimase vivo il ricordo della Fondatrice, morta in concetto di santità. Apertasi dopo 27 anni la sepoltura, per tumularvi le spoglie di una delle prime compagne, il corpo fu trovato incorrotto. Nelle cronache leggiamo che anche i fiori posti a suo tempo nella sepoltura si erano conservati. Nel 1640, ad una nuova riesumazione, il corpo della Fornoni fu nuovamente trovato integro. Trasportato nella chiesa di S. Maria Maddalena, presso l’altare maggiore, venne trasferito nel 1666 presso il coro delle monache.
La biografia di suor Elisabetta Fornoni è contenuta, inedita, in un antico manoscritto oggi conservato alla Queriniana. Tra gli episodi della vita sono descritte le tentazioni che ebbe dal demonio il quale le si presentò con le sembianze di una gallina, animale presente in un raro ritratto insieme ad un teschio (memento mori) e a strumenti di penitenza.
Autore: Daniele Bolognini
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