Nato a Venezia il 21 aprile 1523 da Marco di Giovanni Alvise e da Adriana figlia di Giovanni Bembo, in famiglia patrizia di media condizione, il suo stato sociale e le consuetudini domestiche lo destinavano alle magistrature giudiziarie e alla carriera marinara.
Il padre era giunto al modesto ufficio di provveditore sopra Camere; il fratello maggiore Giovanni Alvise aveva servito nell'armata come sopracomito di galera prima di iniziare la trafila delle magistrature cittadine. Degli altri fratelli, Giovanni, morto nel 1558, era stato consigliere di Cipro e provveditore al Cottimo di Londra; Andrea provveditore sopra Camere, savio agli Ordini e infine ufficiale alla Messettaria; Antonio, infine, fu governatore di una delle sei galeazze veneziane che con la loro potenza di fuoco svolsero una parte decisiva nella battaglia di Lepanto.
Dopo una breve esperienza di avvocato negli uffici di Rialto nel 1543, il Bragadin abbracciò la carriera marinara, divenendo vicegovernatore di galera forzata, poi nel 1550 "patron" di fusta e infine sopracomito di galera. Tornato a Venezia e sposata nel 1556 Elisabetta di Almorò Morosini, si dedicò alle magistrature cittadine, riuscendo eletto nel 1556 provveditore alla Camera degli imprestiti, nel 1561 alle Rason vecchie e nel 1563 tra i Dieci savi sopra le decime. Ma le doti di coraggio ed energia e il senso del dovere dimostrati nell'armata lo destinavano ancora alle cariche militari. Per due volte, nel 1560 e nel 1566, era stato nuovamente designato governatore di galera forzata, ma poi, venuti meno i motivi per armare la flotta, il Bragadin non aveva assunto effettivamente il comando. Il 31 maggio 1569, infine, il Senato lo eleggeva capitano del regno di Cipro, magistrato cui in tempi normali era affidato il governo militare dell'isola.
Quando il Bragadin raggiunse Famagosta, non prima del mese di settembre (una lettera scritta durante il viaggio è datata dalla galera nelle acque di Corfù il 26 agosto 1569), cominciavano a giungere le prime notizie dei grandi preparativi militari intrapresi dai Turchi per l'imminente spedizione, il cui vero obiettivo rimase ancora per diversi mesi avvolto nel segreto. Venezia, benché allarmata, procedeva fiaccamente a rafforzare le difese dell'isola, risolvendosi ad adottare misure energiche soltanto dopo che nella primavera del 1570 si erano rivelate apertamente le intenzioni del sultano. Ma era ormai troppo tardi per porre in grado Cipro di respingere l'imponente armata ottomana. Nondimeno i difensori si disposero con energia a fronteggiare l'attacco.
Preposto alla difesa di Famagosta, dov'era atteso il primo sbarco dei Turchi, il Bragadin si diede a munire la città con opere fortificate, a provvederla di viveri, a ridurre le polveri in depositi sicuri, ad arruolare milizie pagate con una moneta di rame che faceva battere nella zecca locale, imponendone il corso forzoso con la minaccia della pena di morte per chi la rifiutasse, sicché, racconta un cronista, "la detta moneta correva come fusse stato oro et argento". E certo il Bragadin possedeva tutto il coraggio e la spietata energia che la situazione richiedeva, al punto che durante l'assedio fu capace di trarre la spada dal fianco a un capitano di compagnia, e con questa ammazzarlo di sua mano, non sappiamo per quale motivo, ma probabilmente per qualche grave atto d'insubordinazione.
Sbarcati i Turchi il 3 luglio 1570 senza incontrare resistenza, Nicosia cadde dopo due mesi e la guarnigione fu massacrata. Il sinistro annuncio giunse, l'11 settembre a Famagosta con la testa di Niccolò Dandolo, luogotenente generale del regno, inviata al Bragadin per ammonirlo ad arrendersi. Da allora, mentre capitolava atterrita senza combattere la guarnigione del castello di Cerinea, comincia l'eroica resistenza di Famagosta, animata per undici terribili mesi dalla ferma volontà del Bragadin.
Il suo comportamento tuttavia non costituiva un episodio isolato di valore, né la resistenza era un vano sacrificio. Qualche po' dell'alloro di Lepanto - come osserva il Cessi - spetterà anche ai difensori di Famagosta. Sembrava invero che i Veneziani, combattendo sul mare e nel Levante, ritrovassero il valore militare e l'efficienza che così di frequente parevano smarrire nelle guerre d'Italia per il possesso d'una Terraferma estranea ancora alle tradizioni e all'esperienza, che tanti patrizi veneti continuavano a tramandarsi di generazione in generazione navigando sulle galere mercantili e nell'armata. Il sentimento religioso, la coscienza d'uno scontro mortale tra due civiltà irriducibili infondevano poi un insolito ardore nell'animo dei combattenti.
I soccorsi in uomini, viveri e munizioni ricevuti a più riprese, l'attesa d'una controffensiva da parte dell'armata veneta e cristiana suscitavano inoltre ragionevoli anche se mal fondate speranze di successo. Nulla trascurava infatti il Bragadin per sollecitare aiuti, inviando il 5 novembre a Venezia con la galera di Nicolò Donà il vescovo Ragazzoni, e pregando in diverse lettere i parenti di adoperarsi allo stesso fine, "stando sicuro - egli scriveva - da tuti eser agiutato per beneficio universal et mio particulare". E poteva perfino illudersi che a Venezia si fosse disposti a risoluzioni estreme, se il 15 febbraio 1571 esortava i familiari a recarsi dal doge per incitarlo a venire di persona con l'armata "a reqquistar sto Regno, che serà causa de invittar tutti a venirghe".
Ma al di sopra di queste speranze lo sorreggevano il senso del dovere e la ferma dedizione ai suoi ideali di vita, che sapeva esprimere nella rozza prosa di uomo d'azione poco avvezzo alla penna. Nelle lettere scritte durante l'assedio alla suocera e ai cognati di casa Morosini, chiedeva con fervore di pregar Dio: "et seguirà quelo che piague a sua divina bontà la mi troverà pronta a patir morte et altro fragielo prontamente stando quanto più poso preparato in la Sua gracia, di far il debito mio non mancherò, per acidente alcuno, al mio principe, dove farete securi tuti, che quelo che potrà far uno par mio, il farò io, come ho fato per il pasato". Intimamente partecipe alle vicende politiche della sua città, gli bastava l'animo in quei frangenti di lamentarsi che non gli mandassero notizie delle elezioni ai consigli e alle magistrature. Viva sofferenza gli causava la preoccupazione per la famiglia: "Mi dano travaglio - scriveva l'11 marzo 1571, nell'ultima lettera ai familiari pervenutaci - il pensar del pensiero che queli che mi amano hano di me"; ma li esortava a stare "alegri e di buona voglia": "però ogni ora resto più satisfato di trovarmi qui con questa ocasione, sperando anci tenendo per certo l'ilustrar Casa mia, segua quel si voglia di me".
Risoluto con questo animo a resistere fino all'ultimo, il Bragadin respingeva le ripetute intimazioni di resa da parte dei Turchi, che, accampatisi già dal 17 settembre intorno alla città, la stringevano sempre più da presso con trincee, batterie e mine. Animati dal Bragadin e da Astorre Baglioni, governatore generale delle milizie, infaticabilmente presenti sugli spalti con le armi in pugno nei momenti più critici, i difensori opponevano un fuoco micidiale e fin quando fu possibile audaci sortite. Per lunghi mesi non passò quasi giorno senza combattimenti, finché il 21 giugno, fatta esplodere una grossa mina sotto le mura, l'esercito turco sferrò il primo assalto generale. Il 29 giugno un'altra mina apriva la strada ai nemici che tentavano un nuovo attacco in massa. Forse già il 2 luglio - se è esatta la relazione del capitano Angelo Gatto - il vescovo di Limassol a nome della cittadinanza supplicava di trattare la resa; ma il Bragadin, fatto radunare il popolo, lo esortava a resistere almeno due settimane, facendo sperare il prossimo arrivo di soccorsi. Intanto il bombardamento e gli attacchi non concedevano tregua ai difensori, investiti il 9 e il 14 luglio da altri due assalti generali, con cui i Turchi erano riusciti ad incunearsi nella cinta fortificata.
Si era giunti così al 20 luglio e tutti ormai, cittadini e militari, non vedevano altro scampo che nella resa; pure non ardivano farne parola al Bragadin. Ma quando egli alfine ne fu informato, "si levò di cariega gridando in colera, dicendo: 'Dio guardi che mai da cha' Bragadin si facia simil cosa, et chi più verà a dirmi tal cosa, li farò tuor la vita'". Secondo la testimonianza di Alessandro Podacataro, alle proposte di capitolazione egli aveva replicato che, una volta esauriti i viveri, piuttosto "havrebbe tolto il Crucifisso in mano, et sarebbe uscito in campagna, rendendosi sicuro che, da soldati di valor et honore havrebbe havuto seguito, et così gloriosamente havriano finito le miserie et la vita, acquistandosi il regno del cielo". Difficile sceverare in queste ed altre testimonianze la nuda verità dalle suggestioni che la forte figura del Bragadin, esaltata dal martirio, poté esercitare nel ricordo degli stessi testimoni di quei fatti. Ma quale fosse veramente in quel momento l'animo del Bragadin lo rivela l'ultimo dispaccio che riuscì ad inviare il 19 luglio. Il messaggio, sottoscritto anche da Lorenzo Tiepolo e indirizzato al doge, al capitano generale dell'armata e ai comandanti veneti in Candia, più che un'estrema invocazione d'aiuto esprime la virile accettazione d'un destino ormai segnato. Nonostante le gravi perdite subite, i superstiti s'erano difesi di buon animo, sorretti dalla fiducia di ricevere i promessi soccorsi; ma ora - avvertiva il Bragadin - il popolo impaurito manifestava il desiderio di arrendersi, mentre tra i soldati, convinti d'essere stati abbandonati alla propria sorte, serpeggiava lo scoramento. Senza lamenti e senza inutili recriminazioni, il Bragadin constatava che la sorte di Famagosta era ormai segnata: spediva una fregata con il messaggio, non per la speranza che giungesse in tempo a sollecitare i soccorsi, "ma ben per gratificatione di alcuni di questi che ne hanno ricercato, parendogli che si debba con questo sollevar gl'animi di alcuni di questi alterati". Altri dodici giorni resistettero i difensori, ributtando tre nuovi assalti generali, né mai il Bragadin voleva sentir parlare di resa. Soltanto la sera del 31 luglio, dopo una giornata di aspri combattimenti al termine dei quali con uno sforzo disperato erano stati respinti, i Turchi, penetrati nella città attraverso le ampie brecce delle mura semidistrutte, esauriti viveri e munizioni (erano rimasti sette barili di polvere), ridotti a poche centinaia gli uomini validi, il Bragadin dovette piegarsi al deciso parere di Astorre Baglioni e degli altri capi militari, favorevoli a trattare la resa con gli assedianti. Il giorno dopo, 1º agosto, furono sottoscritti i capitoli, che concedevano ai difensori di ritirarsi a Candia con i civili le armi e cinque pezzi d'artiglieria. La sera del 5 agosto, completato l'imbarco, il Bragadin, insieme con il Baglioni e con gli altri comandanti veneziani, si recò all'accampamento turco per consegnare le chiavi della città.
Le accoglienze furono sul principio corrette, ma presto Mustafà Pascià, cambiando bruscamente tono, investì con violenza il Bragadin accusandolo d'aver fatto trucidare la notte precedente una cinquantina di prigionieri turchi. Invano il Bragadin respingeva con energia l'accusa. Due lettere intercettate più tardi dai Veneziani, una dello stesso Mustafà Pascià, l'altra del suo segretario, dimostrano che il turco aveva avuto notizia della strage da alcuni prigionieri fuggiti quella notte da Famagosta, ed aveva preparato freddamente la vendetta. Se la notizia del massacro sia vera, difficile è accertarlo. Certo non sorprenderebbe. E forse, d'altro canto, Mustafà non cercava nulla di meglio che un pretesto per rompere i patti e sfogare la sua collera contro i difensori di Famagosta, che per quasi un anno avevano inchiodato l'esercito turco sotto le mura cittadine, infliggendogli gravissime perdite.
D'improvviso dunque Mustafà ordinò di legare i cristiani. Al Bragadin furono subito mozzate le orecchie, quindi fu fatto assistere allo scempio dei suoi compagni, meno Lorenzo Tiepolo e un ufficiale albanese, che furono impiccati il giorno seguente.
Dopo breve prigionia, il 17 agosto si compiva il martirio del Bragadin. Già gravemente infermo per l'infezione delle orribili piaghe infertegli alla testa, fu trascinato per tutte le batterie degli assedianti e costretto tra gli scherni a trasportare sulle trincee due pesanti ceste di terra. Poi fu issato sull'antenna d'una galera ormeggiata nel porto, e tenuto a lungo sospeso. Condotto infine a colpi di bastone sulla piazza di Famagosta e legato alla colonna dei supplizi, il carnefice cominciò a levargli la pelle. Marcantonio non cessò di recitare il Miserere e d'invocare il nome di Cristo, finché, dopo che gli ebbero scorticato il busto e le braccia, spirò.
Il corpo fu quindi squartato, e la sua pelle, imbottita di paglia e cotone, e rivestita degli abiti e delle insegne del comando, fu portata in macabro corteo per le vie di Famagosta, e poi appesa all'antenna d'una galera, che la portò a Costantinopoli come trofeo, insieme con le teste dei capi cristiani. La pelle del Bragadin, sottratta nel 1580 all'Arsenale di Costantinopoli, fu portata a Venezia e conservata come una reliquia nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo.
Autore: Angelo Ventura
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