Petr Fedorovich Poljanskij nasce il 12 giugno 1862 nel villaggio di Storozhev, governatorato di Voronezh, figlio di un sacerdote ortodosso. Studia all’Accademia teologica di Mosca fino al 1892. Nel 1906 è chiamato a far parte del Comitato scolastico presso il Santo Sinodo con il compito di revisore dei testi scolastici di teologia. Nel 1918 il Comitato scolastico viene abolito dai bolscevichi. Partecipa come laico al Concilio locale della Chiesa russa (1917 – 1918).
Nel 1920 il patriarca Tichon consiglia Petr Fedorovich di farsi monaco per poi essere ordinato sacerdote e consacrato vescovo. In quel periodo si era già scatenata la persecuzione contro la Chiesa ed i primi a subirne le conseguenze erano stati i vescovi. Erano già stati uccisi il metropolita Vladimir di Kiev, l’arcivescovo Andronik di Perm, il vescovo Germogen di Tobol’sk l’arcivescovo Vasilij di Chernigov, assieme a moltissimi sacerdoti e laici fedeli alla Chiesa. Alla proposta del Patriarca, Poljanskij risponde: “Non posso rifiutare. Se rifiuto tradirei la Chiesa, ma se accetto, ne sono consapevole, sottoscrivo la mia condanna a morte”.
A 58 anni Petr Fedorovich Poljanskij si fa monaco, dopo poco è ordinato sacerdote e, ancora dopo poco, consacrato vescovo. Carriera brillante e veloce, ma non è finita. Nello stesso anno viene arrestato e mandato al confino a Velikij Ustjug. Scontata la pena, nel 1923 ritorna e dopo poco è nominato metropolita di Kruticy, vicario del Patriarca. Nel 1925 muore il Patriarca Tichon. Prevedendo la difficoltà di convocazione del Concilio per l’elezione del nuovo patriarca, Tichon nel suo testamento aveva predisposto la nomina di un luogotenente temporaneo della Sede patriarcale nella persona del metropolita Kirill (Smirnov); nell’impossibilità di questi l’incarico sarebbe passato al metropolita Agafangel (Preobrazhenskij) e, se anche questi fosse stato impedito al metropolita Petr (Poljanskij). Siccome il primo era in carcere ed il secondo al confino, toccava al terzo assumersi la prestigiosa e pericolosa carica di luogotenente patriarcale.
Il metropolita Petr non era per sua natura, né un politico e neppure un diplomatico. Non cercava né di abbonirsi il potere (cosa del resto non tanto facile e piuttosto pericolosa) né di scendere a compromessi con il potere. La sua preoccupazione fondamentale era la vita della Chiesa e l’aiuto ai perseguitati dal regime. La piaga della Chiesa lui la vedeva negli ‘innovatori’, il clero filocomunista appoggiato dal partito per dividere la Chiesa (una volta snervata la Chiesa ufficiale il comunismo avrebbe poi combattuto anche contro gli ‘innovatori’). Uno dei primi messaggi del metropolita Petr fu l’esplicita condanna degli ‘innovatori’. La stampa comunista (la stampa semplicemente, perchè la stampa non comunista democraticamente era già stata eliminata per volontà di Lenin) risponde alla condanna degli innovatori accusando il metropolita di comportamento antirivoluzionario. Ma prima di allontanare il metropolita il partito cerca un compromesso: gli propone di fondare lui all’interno della Chiesa un partito chiamato ‘Difesa dell’ortodossia’ che abbia come programma l’assoluta fedeltà al potere sovietico, l’allontanamento di tutti vescovi non grati al partito, la condanna dei vescovi russi all’estero, costante accordo con il GPU (la pulizia segreta). Il metropolita non accetta.
Alla fine di novembre del 1925 vengono arrestati quasi i vescovi di Mosca. Prevedendo prossimo anche il suo arresto il metropolita il 6 dicembre dispone. “In caso di impossibilità, per qualsiasi motivo, di svolgere il mio mandato di luogotenente del Patriarcato, affido temporaneamente il compito di svolgere le mie funzioni al metroplita Sergij (Stragorodskij), in caso di impossibilità al metropolita Michail (Ermakov), esarca dell’Ucraina, in caso di impossibilità all’arcivescovo Iosiv (Petrovych).
Il 9 dicembre 1925 il metropolita Petr viene arrestato. Alcuni giorni prima aveva lasciato scritto: “Mi aspettano fatiche. Non temo il lavoro, l’ho sempre amato e lo amo, non ho paura del giudizio dell’uomo, la sua malvagità l’hanno sperimentata persone migliori e più degne di me. Temo soltanto una cosa, di fare il male… Se segno distintivo dei discepoli di Cristo è l’amore, esso deve compenetrare tutta l’attività di chi serve l’altare del Signore, servitore del Dio della pace e dell’amore. Vi prego di compiere nell’amore, come figli obbedienti, tutte le norme e i decreti della Chiesa”. Mentre il metropolita Petr è in prigione, su indicazione di Tuchkov, delegato del partito per le questioni religiose, si presenta a lui il vescovo innovatore Grigorij e gli propone di mettere a capo della Chiesa ortodossa russa una terna formata dallo stesso Grigorij e da due vescovi, Nikolai (Dobronravoc) e Dimitrij (Belikov) vescovi del Patriarcato di Mosca. Al metropolita Petr si nasconde che il vescovo Nikolaj si trova in prigione e il vescovo Dimitrij è in esilio. Nel desiderio di superare lo scisma il metropolita Petr sul momento acconsente alla proposta, ma il giorno dopo intuisce di essere stato ingannato, ritira il consenso cade in una profonda depressione. Il febbraio 1926 viene portato nell’infermeria del carcere. Ristabilitosi è trasferito nella prigione di Suzdal e tenuto in isolamento assoluto. Tuchkov ritorna all’attacco: propone al metropolita di riunire un sinodo per por fine allo scisma degli innovatori, questa volta il metropolita Petr non abbocca. Preferisce tre anni di confino che trascorre nella città di Tobol’sk a partire dal 5 dicembre 1926. Ma anche qui non ha la vita facile. All’inizio dell’aprile 1927 viene arrestato e relegato nella prigione di Tobolsk fino a quando il 9 luglio viene esiliato in un ambiente più fresco nel villaggio Che, regione del Circolo polare. La salute del metropolita ne risente, non solo per il freddo polare, ma anche perché i pochi sacerdoti della regione sono passati in blocco fra gli innovatori filocomunisti.
Al termine della condanna, alla fine del 1928 il metropolita Petr già sogna un ambiente meno glaciale e più accogliente, ma Tuchkov, sempre preoccupato dell’educazione dei suoi protetti, giudica che l’elemento in questione non si è ancora sufficientemente adeguato ai criteri della nuova cultura, per cui al soggetto, cioè al metropolita Petr, vengono aggiunti altri due anni di confino, sempre al freddo. In una lettera il metropolita scrive di soffrire a causa di un enfisema polmonare, di miocardite e di laringite cronica. Naturalmente al Circolo polare non ci sono medicamenti, tutto si cura con il freddo.
Il 6 luglio 1927 il sostituto del luogotenente al soglio patriarcale, il metropolita Sergij, sostituto del metropolita Petr, aveva resa pubblica la sua famosa dichiarazione di lealtà nei confronti del regime sovietico. Dopo questa dichiarazione un gruppo di vescovi e non pochi sacerdoti rifiutano l’obbedienza al metropolita Sergij e costituiscono la chiesa dei “non commemoranti” (nella celebrazione della Divina Liturgia, non fanno memoria del metropolita Sergij). Anche il metropolita Petr, per tre volte scrive al suo sostituto per disapprovare la dichiarazione del 6 luglio 1927, ma non ottiene risposta. Nelle sue lettere il metropolita Petr afferma di essere mosso a scrivere soltanto per amore della verità e per timore che nella Chiesa si consumi la divisione. Non c’è in lui nessun desiderio di potere o di vanagloria anche perché si sente alla fine della vita.
Ma le pene della vita non sono ancora terminate. Il 17 agosto 1930, quando mancavano tre mesi al termine della pena, il metropolita Petr viene arrestato, condotto nella prigione di Tobolsk e dopo tre mesi nella prigione di Ekaterinburg. Qui viene visitato dal nuovo capo della polizia segreta (GPU) che guarda caso, porta lo stesso suo cognome, Poljanskij. Ma l’omonimia non sempre porta fortuna. L’omonimo, senza mezzi termini, impone al metropolita di rinunciare al titolo di luogotenente del patriarcato, altrimenti …la prigione. Non è una novità: Ma il metropolita rifiuta di cedere al ricatto.
Nel novembre 1930 si apre un nuovo processo: il metropolita Petr è accusato di aver svolto propaganda antisovietica fra la popolazione durante il periodo della sua permanenza al confino. I comunisti, nelle loro accuse, sono sempre stati poco fantasiosi e molto ripetitivi, comune caratteristica dei peccatori. Per un anno intero è relegato in una prigione di massimo rigore: solo in cella, senza diritto di spedire o ricevere posta, con la proibizione di ricevere visite
Nella primavera del 1931 Tuchkov, ritornato in carica, ritorna all’attacco, ma questa volta la proposta è del tutto nuova: diventare informatore della pulizia segreta. Risponde il metropolita: “Se io fossi il cittadino Petr Feodorovich, la mia strada sarebbe diversa, ma come primo rappresentante della Chiesa non devo cercare il mio bene, altrimenti commetterei un peccato… la salute disastrata e l’età avanzata non mi permettono di svolgere con serietà e precisione il ruolo di informatore. Non ho nulla da dire, ma questo tipo di occupazione non si adatta al mio grado ed è contrario alla mia natura”. Dopo pochi giorni il metropolita è colpito da paralisi alla gamba e al braccio. A stento riesce a muoversi. Ciò non impedisce che il 23 giugno 1931 il metropolita venga condannato a 5 anni di lager. Intanto la salute peggiora ulteriormente e insieme peggiorano le condizioni di detenzione. Il metropolita viene trasferito in una prigione di massimo rigore negli Urali. Qui rimane fino allo scadere della condanna (23 luglio 1936). Ma anche questa volta, con una ostinazione degna di maggior causa, si aggiungono altri 3 anni di detenzione
A questo punto, non si comprende bene per quale motivo, il regime comunica ufficialmente la morte del Metropolita Petr. Sappiamo che il partito ha diritto di vita e di morte sul popolo, ma non sapevamo che avesse diritto di inventare la morte. A dire il vero dagli archivi segreti resi noti dopo la caduta del comunismo si è scoperto che inventare la morte, e la causa di morte, dei detenuti era un vizio consolidato fin dai tempi di Lenin.
In realtà il 2 ottobre 1937 il metropolita Petr, che da anni viveva isolato nella prigione del lager, venne condannato alla pena capitale per propaganda antisovietica. Fucilato il 10 ottobre 1937 alle ore 16. La luce del suo martirio risplende intensa su tutta la bestialità umana.
Autore: Padre Romano Scalfi
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