Roman Ivanovic Medved’ nasce il 1 ottobre 1874 nel villaggio di Zamost’, governatorato di Cholmsk. Studia all’Accademia teologica di Pietrogrado. Durante gli studi fa amicizia con Ioann Kronstadskij che sceglie come padre spirituale e al quale si riferirà per ogni decisione importante della sua vita. Il 7 gennaio 1901 sposa Anna Nikolaevna Nevzorova e il 3 marzo dello stesso anno è ordinato sacerdote e destinato come rettore della chiesa dell’Esaltazione della Croce di Pietrogrado. Qui trova le prime difficoltà pastorali: alla chiesa dell’Esaltazione della Croce è legata una fraternità che porta lo stesso nome, ma che in nome di Cristo si ispira più ai principi marxisti che alla fede. I cattocomunisti sono stati preceduti dagli ‘ortocomunisti’, che, nella loro ingenuità, hanno aperto la strada al colpo di stato dell’ottobre 1917. Padre Roman si oppone decisamente a questa moda e ne dimostra il danno denunciandola in uno scritto inviato al vescovo.
Nel 1902 padre Roman è trasferito alla parrocchia di S. Maria Maddalena sempre di Pietrogrado e qui fonda una comunità numerosa di laici impegnati nella vita, secondo i criteri sani della fede. Nel 1907 viene visitato da Gregorij Rasputin, il famoso istrione protetto dalla casa imperiale. Padre Roman non teme di rinfacciargli la sua ambigua condotta, ma la sua franchezza viene ripagata con l’allontanamento da Pietrogrado per ordine imperiale. Prima viene mandato come cappellano militare ai confini con la Polonia e, dopo la morte di Rasputin, a Sebastopoli.
Nel dicembre 1917 il comitato rivoluzionario di Sebastopoli decide la fucilazione di padre Roman, dichiarato elemento reazionario dannoso alla causa comunista, ma padre Roman riesce miracolosamente a fuggire e riparare a Mosca. Il parroco della chiesa di S. Vasilij, Ioann Vostorgov, viene fucilato nel settembre del 1918 e il Patriarca Tichon assegna la parrocchia a padre Roman. Il 29 febbraio 1919 la chiesa di S. Vasilij viene chiusa dai rossi e a Padre Roman viene affidata la chiesa di S. Aleksij, metropolita di Mosca.
Nel 1919 padre Roman viene più volte arrestato e interrogato dalla polizia, ma poi rilasciato dopo breve tempo. Durante uno di questi arresti è lo stesso Dzerzinskij, capo supremo della polizia, ad interrogarlo e consigliargli di trovare una sistemazione in Polonia, ma padre Roman non ha alcuna intenzione di lasciare la Russia, la sua preoccupazione prima è di preparare i credenti a testimoniare la fede. Fonda per questo la fraternità dei ‘zelanti per l’ortodossia’ che ottiene un grane successo anche numerico. Molti intellettuali, già delusi dall’esperimento leninista, tornano alla Chiesa. Dall’interno della fraternità nascono pure ‘i monaci segreti’ e ‘le monache segrete’, persone che consacrano totalmente la loro vita alla missione. Una persona della fraternità testimonia: “Correvano gli anni 1919-1921; regnava la fame, la disoccupazione, l’oscurità: una vita in sfacelo, ma accanto alla chiesa di S. Aleksij, la vita era profonda, intensa, animata dalla presenza di padre Roman Medved’”. A visitare la fraternità c’era anche lo starec Aleksej Mecev che godeva di un grande autorevolezza fra il clero di Mosca. Un giorno ebbe a dire a Padre Roman: “La mia comunità è un ambulatorio, ma la tua è un ospedale”. Un sua figlia spirituale conferma: “Svolgeva un lavoro titanico…era l’esempio brillante di ciò che insegnava.”. Non conosceva riposo, sempre sorridente e disponibile, ma salute venne meno. La tubercolosi lo indeboliva talmente che spesso sembrava ai limiti della resistenza. Appena tornavano le forze riprendeva con il solito zelo.
Il 16 febbraio 1931 padre Roman venne arrestato assieme ad una trentina di membri della fraternità. La chiesa di S. Aleksij venne prima chiusa e dopo breve tempo rasa al suolo. I prigionieri furono rinchiusi nella tristemente nota ‘Butyrka’ fino al 3 luglio. Accusati di appartenere ad una ‘organizzazione antirivoluzionaria’ 24 membri della fraternità furono condannati a vari anni d prigione e di confino, padre Roman a 10 anni di lager
Riportiamo brani di lettere scritte dal lager alla figlia Irina. Padre Roman poteva scrivere una lettera al mese. Scriveva alla figlia per scrivere a tutti
“…Mi consolo pensando che dobbiamo vivere in modo tale da considerare il nuovo giorno come l’ultimo della propria vita (nell’attesa della morte), oppure come il primo (verso la perfezione). Faccio memoria a me stesso che noi sulla terra siamo di passaggio e quindi non dobbiamo rattristarci per le difficoltà passeggere che incontriamo. La nostra patria è nei cieli. Non mi rattristo per il fatto che devo vivere non secondo la mia volontà, perché questa è la prima condizione per camminare verso la perfezione… Ogni giorno, più volte al giorno, faccio memoria faccio memoria delle persone che mi sono care… Voglio e desidero vivere a lungo, ma le mie malattie e la mia vecchiaia mi fanno pensare che morirò qui.”
“Porto ognuno di voi nel mio cuore; non soltanto, tutti ed ognuno vi sento in me come una sola cosa. Non esagero, io vi sento tutti in modo vivo; a volte più profondamente di quando vivevo fra voi… Se non vi amassi, potrei tranquillamente guardare alla candela della mia vita che si sta spegnendo ed essere lieto che il Signore mi abbia destinato ad essere confessore della fede… Naturalmente anche qui ho delle consolazioni; di queste, una principale è che io sento la vostra presenza in modo vivo, come sento me stesso… In Lui io vi trovo tutti: Pregate per me. Quando prego penso frequentemente alle parole di Giovanni Crisostomo e di Basilio il Grande che suggeriscono di non chiedere cose piccole, ma grandi”
“Sento gioiosamente che noi non abbiamo e non possiamo avere dei nemici, ci sono soltanto fratelli infelici, degni di commiserazione e di aiuto, anche quando essi diventano nostri nemici e imprecano contro di noi. Non comprendono che il nemico è soprattutto dentro di noi e che bisogna fin da principio allontanarlo, e poi aiutare gli altri a fare altrettanto”
“In questi ultimi tempi mi accompagna il pensiero della morte. Certamente non è molto lontana, e io mi arranco verso il termine della vita, eppure non vorrei terminare la mia vita qui, in terra straniera, ma fra miei cari. Ma sia fatto come dispone la Provvidenza, accetto senza mormorare tutto ciò che essa vorrà”
“Fin dal primo giorno della mia vita nel lager dal 1931, io bacio le mie catene e so che mi sono date per il mio bene, e per tutto il tempo della permanenza nel lager ho conservato questa convinzione; certo, soffro per la lontananza dai mie cari, anche se li sento vicini. Non conosco la solitudine opprimente perché l’Unico, che è il presente in ogni luogo, è sempre con noi e in noi La mia anima normalmente è in pace; il futuro lo affido alle mani di Colui che meglio di noi dispone della nostra vita…L’eterno è indistruttibile. Dobbiamo solo imparare a penetrare sempre di più in esso. Quale sapienza saper uscire dal proprio ‘io’ e radicarsi nell’ ‘Io’ eterno.”
Il 26 luglio 1936 padre Roman, allo scadere della pena, ridotta di un terzo per la sua invalidità, può ritornare in libertà, ma non gli è concesso di abitare a Mosca. Trova ospitalità in un villaggio non molto distante dalla capitale, Valentinovka, presso Margatita Evgenevna, una figlia spirituale, il cui marito era stato ordinato sacerdote recentemente. Qui rimase per tre mesi. Ma la salute andava sempre più peggiorando. Il clima non era adatto a guarirlo dalla tubercolosi. Un amico sacerdote lo accoglie nella sua città, dove lo raggiunse la moglie Anna Nikolaevna, ma la salute continuava a peggiorare. Ultimo tentativo il trasferimento nella città di Malojaroslavec. Riesce per alcuni giorni a celebrare la Divina Liturgia. “Vorrei – confida a chi l’assisteva- raggiungere quella piena purezza nella preghiera in modo che prendesse subito fuoco come una fiamma, ma ora ho tali sofferenze che riesco a pregare soltanto ad intervalli. I dolori fermano la preghiera e non mi danno pace. Per grazia di Dio la preghiera di Gesù mi accompagna ininterrottamente. La Divina Liturgia è l’unico mio diletto e mia consolazione. Non posso vivere senza di essa. Non posso privarmene”.
Nel luglio del 1937 due collaboratori dell’NKVD vengono per arrestare padre Roman. Nel 1937 l’arresto equivaleva alla fucilazione. Lo trovarono in un momento di grave crisi e sembrava che la morte fosse imminente. “Il lager di morti ne ha abbastanza”, dissero e uscirono.
Il 6 settembre 1937 padre Roman dettò alla moglie la lettera di commiato per tutti i suoi amici: “Miei cari, sono gravemente ammalato e i miei giorni sono contati. I cristiani prima di morire chiedono perdono. Vi prego di perdonarmi in tutto quello ho potuto favi di male: Da parte mia perdono a tutti nel nome del Padre, del Figlio e dello spirito Santo”.
Spirò l’8 settembre 1937 alle otto del mattino.
Autore: Padre Romano Scalfi
Fonte:
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