La vicenda dei diecimila martiri
Cesare Baronio, il venerabile cardinale primo successore di San Filippo Neri alla guida della Congregazione dell’Oratorio di Roma, nel redigere il Martirologio Romano introdusse al 22 giugno la commemorazione di diecimila martiri crocifissi sul monte Ararat in Armenia: “In monte Ararath pássio sanctórum Mártyrum decem míllium, crucifixórum”. Baronio aveva tra le mani la passio, seppur mancassero accenni nei martirologi medioevali anteriori al sec. XIII. Il canonista Radulfo di Rivo, nel sec. XIV, l’aveva reputata favolosa. Tale la giudicarono anche i Bollandisti, anche con espressioni roventi, che però più tardi la pubblicarono. La passio non è infatti anteriore al sec. XII o al XIII, sconosciuta agli agiografi occidentali ed orientali prima di allora. In Oriente, anzi, è rimasta ancora per secoli sconosciuta e gli Armeni addirittura la conobbero e l’accolsero dalla Chiesa latina.
Questo gruppo di martiri è rimasto presente nel Martirologio Romano sino all’edizione precedente il Concilio Vaticano II (Martyrologium Romanum, Éditions Iris 2019, reperibile in Italia tramite Edizioni Piane), per poi essere rimosso nella nuova edizione pubblicata da Papa Giovanni Paolo II all’alba del terzo millennio.
Il Martirologio Romano non indicava in quale tempo avessero subito il martirio e neppure il nome di alcuno di essi. Secondo la passio, invece, capogruppo sarebbe stato un certo Acacio, ufficiale romano al seguito dell’imperatore Adriano (sec. II) in una spedizione in Armenia insieme con diecimila soldati. Rimasti sconfitti, l’apparizione di un angelo convertì al cristianesimo l’intero esercito. Conseguita così la vittoria, Adriano se ne compiacque, ma appresa la notizia della loro adesione alla fede cristiana si adirò. Diede dunque ordine che tutti i diecimila soldati venissero crocifissi sul monte Ararat. Per far eseguire il supplizio avrebbe chiamato in aiuto i più feroci nemici di Roma, i Parti ed altri re caucasici che convocò. Fra questi ultimi anche il re sassanide Sapore, vissuto in realtà molto tempo dopo. In seguito le reliquie di Sant’Acacio e degli altri diecimila martiri vennero traslate in Occidente e distribuite tra numerose città europee, soprattutto della Spagna, dove si giunse a considerarli erroneamente martiri spagnoli, poi ancora in Portogallo, in Italia, a Praga, a Vienna.
L’autore della passio, che non mancò di ispirarsi all’altra famosa di San Melezio, si presentò sotto il nome di Anastasio il bibliotecario, noto dignitario romano del sec. IX, e proprio in virtù di questo pseudonimo la passio riscosse “successo” in Occidente. Ormai invocati con un culto pari a quello dei celebri Santi Quattordici Ausiliatori, furono concessi anche Messa e Prefazio propri per la loro memoria liturgica.
L’accavallarsi di molteplici tradizioni denota la ricchezza di cui ha goduto il ricordo di questi testimoni della fede, il cui esempio rischiava altrimenti di andare perduto tra le nebbie della storia. I Bollandisti hanno talvolta sostenuto che questo Acacio sia in realtà da identificare con quello festeggiato l’8 maggio, soldato di Bisanzio, i cui atti giunti in Occidente avrebbero subito un’iperbolica metamorfosi. In realtà si tratta di due culti ben distinti.
L’iconografia in Europa
Un aspetto interessante cui dedicare ulteriore approfondimento è l’iconografia, l’impatto cha nell’arte ha avuto il culto di questa folta schiera di santi martiri. La maggior parte delle raffigurazioni sono caratteristiche dell’arte svizzera e della Germania meridionale. La vicenda del martirio di così tanti uomini sul monte Ararat, rende la scena anche sul piano iconografico parecchio simile a quella dei mrtiri della Legione Tebea (santi Maurizio e compagni) ed a quella di Santa Orsola con le undicimila vergini sue compagne.
Raramente è stato raffigurato il solo Sant’Acacio, senza i suoi compagni di martirio, dai quali è invece quasi sempre circondato. Acacio è spesso riconoscibile per l’attributo di un ramo spinoso, sia in memoria della fustigazione subita, sia per un allusione al suo stesso nome che rimanda ad un albero dalle lunghe spine. Altri suoi attributi frequenti sono la spada, con la quale il santo venne decapitato, o alcuni idoli rovesciati. In altre assai rare raffigurazioni, quale ad esempio l’affresco del sec. XIV nella chiesa dei Domenicani a Maastricht, il santo appare vestito da vescovo anziché da soldato: ciò si spiega soltanto con un involontario errore degli artisti che lo hanno confuso con altri santi omonimi.
Armato come un legionario romano, Acacio è stato rappresentato in una scultura lignea del sec. XV, attribuita ad Erasmus Grasser, posta nella chiesa di Reichsdorf, mentre ancora nel medesimo secolo un quadro di scuola bavarese lo ritrasse accanto a San Pantaleone. Munito di spada e crocifisso, Acacio figura anche sul rovescio di uno sportello di pala d’altare di Nicolas Manuel Deutsch nel museo di Berna e su un dossale d’altare nella chiesa di Crozon (Finistère) del sec. XVI.
Ogni altra raffigurazione si riferisce alla scena del martirio in gruppo dei diecimila soldati. Tra esse degno di nota è l’affresco del sec. XIII sulla volta del transetto nella chiesa di San Severo di Boppard a Dausenausulla Lahn, per un’affinità di composizione con le scene rappresentate sulle vetrate della cattedrale di Strasburgo (sec. XVI).
Il martirio dei diecimila è raffigurato anche su una predella del Bachiacca nella Galleria degli Uffizi a Firenze e sullo sportello d’altare di Hans von Kulmbach a Karlsruhe (sec. XVI). Le tre opere più rappresentative dal punto di vista iconografico restano le vetrate della Collegiata di Berna, la Pala Peringsdörfer del Museo Germanico di Norimberga ed il grande dipinto di Alberto Dürer, eseguito per l’elettore Federico di Sassonia nel 1508, oggi custodito al Museo di Vienna.
Sulle vetrate della Collegiata di Berna, realizzate nel 1147, figurano in scene successive le fasi del martirio dei diecimila ed i prodigi ad essi collegati: la lapidazione ed il rimbalzare delle pietre lontano dai condannati, il camminare su un letto di chiodi che gli angeli raccolgono e dispongono a mucchi, ed infine le schiere di martiri tratti al palo o alle croci.
Nella suddetta Pala Peringsdörfer di Norimberga, dipinta probabilmente in memoria della grande peste del 1448, e della quale restano solamente alcuni frammenti, sono rappresentati, fra molti altri episodi delle vite di vari santi e martiri, anche quelli relativi ai diecimila. Tale dipinto anticipa in un certo qual modo il grande quadro del Dürer. In esso l’artista ha riunito innumerevoli scene del grandioso evento del supplizio sul monte Ararat. Nei minuti particolari sono descritti i vari tormenti cui vennero sottoposti, i gruppi di persecutori e di vittime, sullo sfondo di un vasto paesaggio roccioso. Un abbozzo di questo quadro, datato al 1507, si trova alla Albertina, mentre una variante di esso, incisa nel legno,porta una data precednete di dodici anni.
Un anonimo di Toledo (sec. XVI) realizzò l’opera custodita a Madrid nel Museo del Prado.
L’iconografia in Italia
Gallerie dell’Accademia a Venezia acquisì nel 1812 l’opera di Vittore Carpaccio dalla chiesa di Sant’Antonio di Castello, a seguito delle soppressioni napoleoniche. Firmata e datata al 1515, la pala, commissionata da Ettore Ottobon, era originariamente collocata in un altare marmoreo sul lato destro della chiesa citata, oggi distrutta. Il soggetto, inedito prima di allora nell’arte italiana, narra la vicenda dei diecimila martiri: il dipinto, che comprende i vari episodi della vicenda distribuendoli in profondità senza uno specifico focus compositivo, riprende l’impostazione dei cicli narrativi modulandola per il tipo della pala d’altare. Il risultato, infatti, è sicuramente distante dalle serene produzioni di Giovanni Bellini. Carpaccio sceglie, inoltre, di riferirsi ad artisti di diversa tradizione figurativa quali Michelangelo e Dürer.
A Brescia nella chiesa di San Giovanni Evangelista una pala d’altare di autore ignoto raffigura i diecimila martiri. Quest’opera non spicca per particolari qualità e viene letteralmente immerso nella bellissima e grande scassa che lo circonda per riceverne pregio, bellezza e splendore. L’autore si è concentrato sul mostrare quanti più martiri fosse possibile piuttosto che riflettere sulla prospettiva e sulla scansione dei piani creando una scena caotica con corpi e croci che si intersecano, si sovrappongono e si intralciano. Il colore un pò spento fu ritoccato nella parte inferiore del quadro, presumibilmente Antonio Gandino, che rese più vistose alcune figure, insistendo anche sulle fisionomie per incattivirle. Una delle figure sulla destra è ripresa esattamente dalla “Crocifissione di San Pietro”, dipinta da Michelangelo nella cappella Paolina. Un terzo pittore aggiunse in alto una fetta di Paradiso con molti Santi stipati d’ogni estrazione, che da lassù accolgono il ragguardevole numero di soldati condannati a morte. Sempre in alto, proprio sotto la cornice, si sta svolgendo l’incoronazione della Vergine. Questa parte aggiunta è dipinta con una gamma cromatica più accesa rispetto al resto e per la sua esecuzione fu fatto il nome di Gerolamo Rossi. L’autore della tela però non è stato ancora chiaramente riconosciuto: potrebbe essere Pietro Esseradts, italianizzato in Everardi, detto il Fiamminghino, figlio di Giovanni di Fiandra e stabilitosi a Brescia tra il 1647 ed il 1678 circa, ma la sua biografia non concorda cronologicamente con gli interventi successivi di Rossi e Gandino, quindi un’attribuzione definitiva non è stata ancora stabilita. Il ritratto posto sul fondo, con tanto di stemma, appartiene al canonico lateranense Floriano Canali, che fu organista della basilica di San Giovanni tra il 1581 ed il 1614, come dimostrano anche le lettere “flo.ca” poste intorno allo stemma. Le scrostature presenti proprio nella zona del ritratto e dello stemma rivelano che anche questo fu aggiunto in un secondo momento.
Il culto dei diecimila martiri a Brescia giunse direttamente da Venezia, dove la chiesa ed il convento di Sant’Antonio di Castello appartenevano ai Canonici Lateranensi di San Salvatore, lo stesso ordine del complesso bresciano di San Giovanni. Secondo quanto narra un documento nell’archivio parrocchiale di San Giovanni, nel 1511, durante una pestilenza, i martiri sarebbero miracolosamente apparsi sopra il complesso, arrestando il contagio. Ecco i due principali fattori che spiegano le origini del culto di questi martiri a Brescia. È da osservare che la pala dell’altare bresciano ricorda vagamente la pala del Carpaccio, del quale in San Giovanni vi era un bel quadro, di proprietà della famiglia Averoldi, dipinto nel 1519. Nel 1869 questo dipinto, mentre veniva trasportato in Inghilterra, affondò nella Manica e ne rimane solo il disegno preparatorio nella galleria di Dresda.
In Italia troviamo anche infine le opere di Michele Tosini (1550 ca.), a Firenze presso il Museo di San Salvi, e di Jacopo Pontormo (1530), sempre nel capoluogo toscano nella Galleria degli Uffizi.
Autore: Don Fabio Arduino
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