Il ragazzo, nato a San Biagio di Centallo il 6 maggio 1949, è entrato in seminario a 10 anni come si usava allora, alla ricerca di una vocazione di cui anche chi gli vive accanto sembra avvertire i segni premonitori. Su di lui, poi, è particolarmente pronto a scommettere il priore dell’epoca, don Bartolomeo Roccia, per quasi 50 anni autentico “talent scout” di vocazioni sanbiagesi e che riesce a raggiungere un invidiabile primato per numero di parrocchiani avviati alla vita religiosa e sacerdotale grazie al suo ineguagliabile fiuto.
Sembra infatti che neppure si sbagli sul conto di Silverio, stando almeno al parere unanime dei formatori e al buon cammino di maturazione umana e spirituale che questi compie, distinguendosi anche sul piano scolastico. Che non sembra addirittura risentire dei suoi problemi di salute e neppure dei periodi di degenza al Mauriziano di Torino perché, nell’anno in cui non riesce a frequentare le lezioni, studia privatamente da casa e la promozione arriva ugualmente.
“Nelle funzioni sacre veniva sempre scelto da cerimoniere e stava molto bene accanto alla bella figura del vescovo monsignor Dadone”, dicono adesso i suoi compagni di allora, ricordando come ormai, per Silverio, il sacerdozio è la meta verso la quale indiscutibilmente tende e l’orizzonte verso il quale è incamminato, per cui “seppe resistere alle proposte dei familiari di sospendere gli studi, data la precaria sua salute, ma nessuna parola valse a distoglierlo dalla ferma sua volontà di corrispondere alla chiamata di Dio”.
Nel 1968, “nel terzo anno di Teologia, e proprio all’inizio della scuola, si manifestò un altro tremendo male che bloccava tutte le sue energie e per la terza volta fu portato d’urgenza al Mauriziano dove dovette rimanere per analisi alcune settimane”. Da questo nuovo ricovero torna a casa con una sentenza di morte, che il 3 febbraio, festa di San Biagio, confida al priore don Cesare Giraudo, nel frattempo subentrato a don Roccia: “Per me non c’è più nulla da fare, la scienza non ha più mezzi per salvarmi”, sussurra con santa rassegnazione, certamente frutto dell’intenso cammino, compiuto alla luce della Parola e fortificato dalla preghiera.
Il 9 febbraio riceve per la seconda volta l’unzione degli infermi: “Lasciatemi tranquillo”, dice a chi gli sta intorno, “voglio stare in colloquio col Signore”. Attorno al suo letto si alternano superiori e compagni, sacerdoti e parenti, gli stessi vescovi di Cuneo e Fossano (mentre durante la degenza torinese ha già ricevuto la visita del cardinal Pellegrino), in una processione ininterrotta che sembra giovare, più che al malato, agli stessi visitatori. Accanto a Silverio si respira infatti serenità e abbandono in Dio, speranza e coraggio anche nei momenti di più cruda sofferenza. Da quando ha preso coscienza che la malattia non gli lascerà scampo e che quindi mai potrà essere sacerdote, ha imparato ad offrire al Signore questo suo sogno infranto, insieme agli scampoli di vita che ancora gli restano da vivere, per la Chiesa, per i compagni di studio e di ideali (ai quali raccomanda: “Cercate di fare anche qualcosa di ciò che avrei voluto fare io”), per le future nuove vocazioni.
“Credere è facile, quando tutto va bene e non ci sono grandi prove, ma quando a 21 anni ti trovi a tu per tu con la morte, allora sì che la fede diventa vita”: ecco uno dei frammenti, tra ricordi e appunti volanti, che lasciano trasparire la lotta che anche Silverio ha dovuto sostenere per continuare a credere nonostante tutto. Così come emergono il rimpianto di non poter essere prete (“Non è che mi rincresce morire, mi rincresce non poter arrivare al sacerdozio”), il suo desiderio di perfezione (“Santificarsi per santificare domani anche gli altri. Se non incomincio da adesso a farmi santo, domani non sarò un prete santo”), la consapevolezza che la vita è una partita da giocare bene (“Non conta la vita lunga o breve, ma il modo con cui la si vive”). “Ciao a tutti, vi aspetto tutti in paradiso”: è l’ultimo saluto alla sua numerosa famiglia radunata attorno al suo letto, che la morte gli permette di fare all’alba del 15 marzo 1971, prima di portarselo via. Il giorno dopo, per l’ultimo saluto, monsignor Dadone e i sedici concelebranti indossano paramenti bianchi come Silverio espressamente ha chiesto, perché malgrado il tempo quaresimale, deve essere chiaro a tutti che questo “è giorno di festa”. E, non sembra vero, la festa continua. Ininterrottamente, da 50 anni.
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