Nacque a Siena, ma non sappiamo con certezza se nel 1558 o nel 1562. Sono state conservate due copie di fedi di battesimo diverse, ma entrambe plausibili. La prima è relativa a Caterina Pasquina figlia di Pasquino di Mone, battezzata a Siena il 30 maggio 1558; la seconda invece parla del battesimo, avvenuto a Siena il 20 dicembre 1562, di Caterina figlia di Pasquino di Biagio, originario di Firenze (Cecchini, 1933, p. 319). In entrambi i documenti manca il nome della madre, la cui identità è trasmessa dagli appunti manoscritti del gesuita Alessandro Quadrio, confessore di Caterina, risalenti al 1588: si tratta di Silea Panciatichi da Pistoia.
In ogni caso è certo che Caterina non appartenne alla nobile stirpe dei Vannini da Siena, come invece vorrebbe una tradizione accreditatasi già a partire dalla più antica Vita di Caterina. Peraltro la famiglia Vannini, almeno nel suo ramo portante, risulta estinta già a metà Cinquecento. Caterina ebbe dunque umili natali. Sappiamo inoltre che della sua famiglia faceva parte anche un fratello maggiore di cui conosciamo appena il nome di battesimo: Fabio.
I documenti relativi a Vannini sono esigui: le informazioni più abbondanti si ricavano dalle sue lettere, dal processo di canonizzazione e dall’agiografia composta dal padre spirituale Quadrio e successivamente rimaneggiata e diffusa sotto la propria autorialità dal cardinale Federico Borromeo, come ha chiaramente mostrato Ottavia Niccoli (2011, p. 308). Si tratta dunque di testi fortemente orientati e da usare con grande cautela, non in ultimo anche perché alcuni sono strettamente dipendenti dall’autonarrazione di Vannini.
Dell’infanzia sono sopravvissute poche e controverse notizie, pare tuttavia che fosse rimasta orfana del padre quando era molto piccola e che fosse stata avviata assai precocemente alla prostituzione. Con la madre raggiunse Roma forse nell’età della pubertà e lì continuò a prostituirsi con alcuni amanti fissi, diventando la preferita di un ‘grandissimo personaggio’ del quale l’agiografia tace l’identità. Visse così finché, stando ancora al racconto agiografico e costruito a partire dalle sue narrazioni, nel 1574 non fu imprigionata per volontà di Gregorio XIII. Sarebbe poi stata scarcerata e rimpatriata a Siena tra il 1574 e il 1575.
È estremamente arduo esprimersi con cognizione di causa su questi fatti. Di sicuro sappiamo che già il 12 settembre 1573 Gregorio XIII aveva dato ordine che fossero arrestate le meretrici residenti al di fuori della zona a loro riservata (l’Orto di San Biagio) e che, se renitenti, fossero espulse. Nel 1574 le prescrizioni in merito al meretricio si rafforzarono ulteriormente: con la bolla Dominus et Redemptor noster, il papa indisse il giubileo e ordinò di bandire le prostitute da Roma (L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medioevo, IX, Roma 1925, pp. 38 s., 865). Può dunque darsi che in una di queste occasioni Vannini dovette confrontarsi con la giustizia. Secondo l’agiografo, in carcere si ammalò piuttosto gravemente di un’affezione respiratoria. Le fu proposta la scarcerazione in cambio della sua promessa a sposarsi oppure di accettare la monacazione nel monastero delle Convertite o delle Malmaritate. La dote necessaria sarebbe stata messa a disposizione dal pontefice stesso, ma lei optò per tornare in patria.
Comunque sia, di ritorno a Siena dovette abitare con la madre in una casetta ubicata in una porzione di fabbricato che oggi corrisponde all’area della sacrestia della chiesa della contrada della Tartuca, l’oratorio di S. Antonio da Padova alle Murella. Ancora secondo il racconto agiografico, si sarebbe convertita nel 1575, mentre ascoltava una predica su s. Maria Maddalena, tenuta da un frate nella chiesa senese di S. Agostino, sua parrocchia. Allora Cristo le parlò interiormente e lei, giunta a casa, si spogliò delle vesti lussuose che indossava, tolse i gioielli e, denudatasi di fronte a un’immagine del Crocifisso, usò le catene d’oro con cui si era adornata per flagellarsi.
Iniziò così un periodo di penitenza e mortificazione. Ispirandosi alle Vite dei padri del deserto e alla fama di Caterina de’ Ricci da Prato, si vestì con un umile saio di foggia francescana e cercò l’assistenza spirituale del prete Gismondo Chigi e poi di maestro Arcangelo dell’Ordine dei frati predicatori. Forse intorno al 1581 ricevette l’abito di terziaria domenicana proprio da padre Arcangelo, nella chiesa dei Ss. Quirico e Giulitta, posta ancora nelle vicinanze della sua abitazione. Tre anni più tardi (1584) prese i voti nel monastero domenicano senese di S. Maria delle Grazie, detto delle Convertite, dopo essere stata rifiutata più volte. Per quattro anni risiedette, per mortificazione, in una celletta molto angusta. All’epoca era già affetta dalla malattia che l’avrebbe accompagnata fino alla morte: l’idropisia che con tutta verosimiglianza si era manifestata già nel 1581. In data imprecisata anche la madre Silea fu accolta nel monastero delle Convertite, dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1601.
Nel 1588 morì padre Arcangelo, così a Vannini fu affiancato un nuovo confessore, il gesuita Quadrio, che avrebbe lasciato alcune testimonianze manoscritte su di lei oggi custodite nella Biblioteca Ambrosiana di Milano. I suoi confessori e, in seguito, gli agiografi, raccontano che Vannini faceva esperienza di un’intensa vita mistica, ricca di visioni, allocuzioni ed estasi. Fu molto vicina anche al sacerdote Giorgio Giunti e all’aristocratico medico Pier Luigi Capacci, deputato del monastero delle Convertite e figlio spirituale del medesimo confessore di Vannini, come lei stessa attestò in una lettera del 6 giugno 1605 dove scrisse di averla dettata «al dottore de Capacci nostro deputato, il qual era figliolo spirituale dell’istesso padre che era mio confessore» (Saba, 1933, p. 198). Vannini era in grado di leggere e scrivere, avendo imparato a farlo da una prostituta di nome Nerea (Niccoli, 2011, p. 309) e avendo poi perfezionato queste abilità nel monastero delle Convertite.
Fra il 1605 e il 1606 fu autrice di molte lettere e anche di un libello devoto intitolato Modo per eccitare e ammaestrare li semplici e poco esperti a recitar con qualche frutto il S. S. Rosario dettato dalla madre Suor Caterina Vannini da Siena, monaca Convertita, stampato a Siena per i tipi di Luca Bonetti nel 1606. Numerose epistole (103, v. Misciattelli, 1932, e Saba, 1933, p. 200) sono dirette al cardinale Borromeo e, talvolta, sono vergate con una grafia tanto ostica da costringere il cardinale a postillarle trascrivendone parole intere. Borromeo la conobbe personalmente. Egli la visitò per ben due volte, facendo tappa a Siena mentre era in viaggio verso Roma, sia l’11 marzo sia il 27 maggio 1605. Reputava Vannini una santa donna e, dopo la sua morte, ne compose la Vita. Volle anche un piccolo ritratto di lei, che commissionò al pittore senese Francesco Vanni, il quale la ritrasse quando ormai era giunta alla fine della sua vita. Borromeo nel 1605 le donò l’effige della Vergine allattante durante la fuga in Egitto, mentre, oltre alle lettere, Vannini nel 1605 gli inviò una copia del proprio libro con la coperta decorata di sua mano. Le rappresentazioni iconografiche usate da Vannini furono spiegate da Capacci in una lettera (Saba, 1933, p. 243), evidenziandone identità e significati. Anche il libro fu depositato negli atti processuali e, contestualmente, si certificò che era stato dettato da Vannini a un suo caro amico, tale Ottone Otterenghi.
Morì nel monastero delle Convertite di Siena, circondata da fama di santità, il 30 luglio 1606.
Dopo la morte, per interessamento di Borromeo e per volontà dell’arcivescovo Francesco Maria Tarugi, il 7 novembre 1606 la curia arcivescovile senese dette avvio alle indagini che avrebbero prodotto il Processo informativo sulle virtù di Caterina Vannini che si svolse di fronte all’arcivescovo di Siena Alessandro Petrucci nel 1621. Furono numerosi i testimoni che asserirono di aver ricevuto grazie e miracoli per l’intercessione di Vannini e grazie all’uso di oggetti con cui era stata in contatto. Erano già trattate come reliquie miracolose le sue vesti o porzioni di esse, il liquido che era sgorgato dal suo corpo anche dopo la morte e una non meglio identificata ‘polvere’ presente sulla sua salma. La causa fu promossa nel 1629, ma nel 1656 le si opposero numerose Animadversiones. Il processo fu ripreso e trasmesso alla congregazione dei Riti nel 1670, ma rimase fermo fino al 1701, quando la causa fu riaperta ma non superò l’esame della congregazione dei Riti e quindi fu chiusa nel 1741 (Cecchini, 1933, p. 245).
Autore: Isabella Gagliardi
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