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Palosco, Bergamo, 9 ottobre 1943 - Kikwit, Repubblica Democratica del Congo, 28 maggio 1995
Maria Rosa Zorza, bergamasca di origine, trascorse l’infanzia e la prima giovinezza seguendo la famiglia nei vari spostamenti causati dal lavoro del padre, fattore agricolo. A 23 anni non ancora compiuti entrò tra le Suore delle Poverelle dell’Istituto Palazzolo. Dotata di un carattere allegro, sorridente e disponibile, ottenne di poter partire per l’Africa nel 1981. Si dedicò interamente ai bambini, ai malati gravi, agli infermi di mente e ai carcerati, cercando di essere costantemente lieta. Quando nel maggio 1995, le consorelle di Kikwit furono colpite da una malattia ancora da definire, ottenuto il consenso della Superiora provinciale, partì convinta di poter collaborare in modo efficace: si trattava, però, del virus Ebola. Fu l’ultima di sei suore, tra le due più giovani, a morire per quel virus mortale: perse la vita il 28 maggio 1995. Per la loro beatificazione si è intrapresa la via dell’accertamento delle virtù eroiche, attraverso sei Cause distinte. Il 20 febbraio 2021 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione dei decreti relativi a Suor Floralba Rondi, Suor Clarangela Ghilardi e Suor Dinarosa Belleri, mentre il 17 marzo 2021 ha autorizzato la promulgazione di quelli relativi a Suor Vitarosa, Suor Annelvira Ossoli e Suor Danielangela Sorti. Le loro spoglie, per espressa richiesta del Vescovo di Kikwit Monsignor Edouard Mununu, riposano davanti alla Cattedrale di Kikwit.
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Infanzia e adolescenza
Maria Rosa Zorza nacque a Palosco, in provincia di Bergamo e Diocesi di Brescia, il 9 ottobre 1943. Era l’ultima dei sette figli (oltre ai due, morti poco dopo la nascita) di Angelo Zorza e Maria Merigo. La madre morì quando lei aveva due anni e fu affidata alle cure della nonna paterna, Faustina. In seguito, nel 1949, il padre si risposò con Maria Calegari, che gli diede altri due figli.
La situazione economica della famiglia era dignitosa, ma i traslochi furono frequenti. Quando Maria Rosa ebbe sette anni, ci fu il trasferimento alle Bettole di Cavenago, per via del lavoro del padre, perito agrario e fattore. Oltre che lavoratore instancabile, papà Angelo era anche molto religioso: tutte le sere radunava la famiglia al completo per la recita del Rosario. Maria Rosa crescendo frequentava l’Oratorio e la Parrocchia di Cavernago, e nella chiesa, dove le piaceva sostare, il Signore stava iniziando – sono parole sue – a esercitare «una certa attrattiva» su di lei.
Verso i diciassette anni ritornò con il papà e la famiglia a Palosco, nella frazione di Torre de’ Passeri e, oltre che prestarsi nei lavori domestici, andò anche a lavorare a Telgate, presso una fabbrica di manici di ombrelli, per contribuire ai bisogni familiari: il lavoro era in nero, ma consentiva ugualmente un piccolo guadagno.
Quale la sua vocazione?
In occasione del 25° di professione religiosa, Suor Vitarosa lasciò a un gruppo di giovani una testimonianza nella quale così raccontava: «Avvertivo che la vita è un dono di Dio, che tutto quello che ci circonda è fatto da Lui con amore e che ogni persona era pure un segno dell’amore di Dio. Capivo che su ogni persona il Signore ha un progetto particolare: è compito di ciascuno di noi conoscere questo progetto e realizzarlo secondo i doni di cui siamo colmati. Ma quale era il mio progetto?».
In attesa di capirlo meglio, iniziò a frequentare Giuseppe, un giovane del paese. La loro relazione durò due anni, ma entrambi si domandavano spesso se davvero Dio li volesse insieme. Alla fine, Giuseppe entrò in convento, mentre Maria Rosa iniziò un cammino serio, alla ricerca della Congregazione adatta per lei.
Tra le Suore delle Poverelle
A Palosco aveva incontrato le Suore delle Poverelle dell’Istituto Palazzolo. Per conoscere meglio il loro stile di vita religiosa e, allo stesso tempo, compiere un’esperienza lavorativa, andò a lavorare nell’Ospedale psichiatrico «Bizzozzero» di Varese, dove esse erano presenti.
Quando ebbe capito che il suo posto era proprio accanto ai poveri e ai malati, entrò ufficialmente nella Congregazione delle “Poverelle”: era il 1° settembre 1966 e Maria Rosa non aveva ancora 23 anni.
Con la Vestizione religiosa prese il nome di Suor Vitarosa. Professò i voti temporanei il 25 marzo 1969 nella cappella della Casa Madre, a Bergamo. Continuò il periodo di formazione mantenendo il suo carattere espansivo e allegro, e un costante sorriso sul volto.
Inviata a Milano via Palazzolo per gli studi, incontrò qualche fatica mentre frequentava il corso per infermiere professionali e quello di specializzazione in geriatria: “Ma io voglio diventare a tutti i costi infermiera, per andare in missione a curare i bambini malati”, scrisse a Suor Teresina Mazza, un’amica d’infanzia pure diventata “Poverella”.
Sempre disponibile
Gli anni seguenti la videro nel servizio generoso agli anziani malati: della Casa di riposo di Milano via Palazzolo, poi di Torre Boldone, e nuovamente tra i malati mentali a Varese. Abituata ai traslochi con la famiglia, le veniva naturale rispondere: «Dove mi mandano, io vado… Cosa importa?...».
Sentiva inoltre un impulso sempre più forte ad andare missionaria tra i fratelli più poveri, in Africa. Per tre volte scrisse alla Madre generale per manifestarle la propria disponibilità, e finalmente nel 1981 la sua richiesta fu accolta.
Dovette affrontare ancora una volta gli studi, per specializzarsi nelle malattie tropicali e apprendere la lingua francese, ma tutto fu superato in vista della missione! Il 20 ottobre 1982 giunse a Kikwit, per prestare il suo servizio nell’Ospedale civile.
Con un sorriso continuo
Le consorelle ricordano che Suor Vitarosa la sera amava raccontare allegramente alcuni episodi della sua giornata, rallegrando tutte.
Quanti l’hanno conosciuta, in prevalenza bambini denutriti e malati, ma anche mamme, malati di ogni età e condizione, collaboratori ospedalieri, oltre ad un cuore magnanimo, premuroso e attento, ricordano il suo costante, immancabile sorriso. Eppure sentiva sue le loro sofferenze!
Nelle lettere ai familiari infatti e alla Madre generale raccontava le tristi condizioni della gente che arrivava in ospedale, e manifestava la sua forte preoccupazione per la situazione politica dello Zaire travagliato da grandi povertà, ingiustizie, oppressioni e guerre interne.
Tre volte la settimana si recava in carcere, portando cibo e conforto ai detenuti; erano oggetto delle sue cure anche i malati mentali, perfino quelli più pericolosi.
Aveva una fiducia immensa nella Provvidenza, che si manifesta grazie alle generosità degli uomini, dei giovani, come si coglie ancora nella testimonianza sopra citata: «Io sono certa che il grido di questi fratelli è capace di suscitare la solidarietà di noi che stiamo bene e che ci diciamo cristiani, ma sono anche sicura che la voce del Signore bussa al cuore di tanti ragazzi e ragazze chiedendo di mettere la loro vita a disposizione di questi fratelli per dire concretamente, con la vita spesa per amore, che in cielo c'è un Padre per tutti».
A Kingasani, affidandosi a Dio
Nel 1991 Suor Vitarosa fu obbligata a tornare in Italia per curarsi da un’ischemia. Appena ripresa desiderò ritornare in Zaire, e fu destinata a Kingasani, grande Missione nella periferia di Kinshasa, dove avrebbe potuto curarsi meglio in caso di bisogno. Era preoccupata per i saccheggi e i disordini continui ma, in tutta semplicità, si sentiva di scrivere: «Anche se l’insicurezza non manca mai e la paura qualche volta si fa sentire, mi affido a Dio…».
L’affidamento all’«Amabile Infinito», come lo chiamava il suo Fondatore, don Luigi Maria Palazzolo (Beato dal 1963), è testimoniato anche nella lettera dell’11 novembre 1993, scritta alla Madre generale durante un ritiro. In essa, ancor prima di riferire nel dettaglio le sofferenze dei malati, confidava alla Madre: «Ho percepito che Dio mi ama… più mi riconosco di avere tanti limiti ed essere tanto povera, più sento che Dio mi ama. Sì, perché Dio ama i piccoli…».
L’epidemia di Ebola
Nell’aprile del 1995 gli operatori sanitari di Kikwit, che avevano partecipato all’intervento chirurgico su di un malato grave, morirono nel giro di due settimane. Anche le Suore delle Poverelle ebbero una vittima: Suor Floralba Rondi, morta il 25 aprile.
Il 6 maggio successivo morì un’altra Religiosa, Suor Clarangela Ghilardi. Due giorni dopo arrivò la diagnosi definitiva: entrambe le Suore, ed anche gli altri medici e infermieri, erano morti a causa del virus Ebola. Era quindi in atto una vera e propria epidemia.
Nel primo pomeriggio dell’11 maggio 1995 seguì la morte di Suor Danielangela Sorti, ed il 14 maggio quella di Suor Dinarosa Belleri. Suor Annelvira Ossoli, la Superiora della Provincia d’Africa, che era accorsa immediatamente da Kinshasa a Kikwit e si era prodigata curando le precedenti Suore, morì il 23 maggio.
Accorsa a Kikwit, e contagiata
Suor Vitarosa appena seppe che le sorelle di Kikwit erano malate, dopo aver ottenuto il consenso della Superiora provinciale Suor Annelvira, nei primi giorni di maggio corse ad aiutarle: portò con sé 42 chili di medicine, stipate in due valigie. Come tanti, pensava che fosse semplicemente una diarrea rossa, e quindi credeva di avere le risorse giuste per debellarla.
A chi le domandava se non avesse paura, replicava: «Paura di che? Le altre Sorelle sono là; perché non posso esserci anch'io? Hanno bisogno di me». Poi si allontanò intonando un canto che, in lingala (la lingua di Kinshasa) significa: «Se nella Chiesa Gesù Cristo ti chiama, accetta di servirlo con tutto il tuo cuore».
Giunta a Kikwit, affiancò generosamente la Superiora provinciale, Suor Annelvira, nella cura delle prime quattro consorelle decedute; nel servizio prestato entrambe contrassero il contagio, e da venerdì 19 maggio furono costrette all’isolamento nella casetta dove erano state isolate le precedenti; nel pomeriggio ricevettero l’Unzione degli infermi.
Inizialmente le condizioni di Suor Vitarosa non destavano preoccupazione, sembrava non presentasse i sintomi tipici del virus. Tuttavia, col passare dei giorni, si aggravò sempre di più. Quando il 23 maggio morì la Superiora provinciale, nonostante molte precauzioni perché lei non lo cogliesse, ben se ne accorse e disse al medico di Atlanta che la curava: «Ora è il mio turno». Morì infatti nella notte del 28 maggio 1995.
La sua Causa di beatificazione
La vicenda delle sei Suore circolò immediatamente tramite la stampa e la televisione e, col passare del tempo, non fu dimenticata né dentro né fuori l’Istituto.
La Congregazione delle “Poverelle”, dopo ponderata riflessione, chiese l’avvio della Causa di beatificazione per le sei Suore al Vescovo di Kikwit. Questi, ottenuto nel 2013 il Nulla osta da parte della Santa Sede, aprì le singole Inchieste per l’accertamento delle virtù eroiche di Suor Vitarosa e delle cinque consorelle. L’apertura delle Inchieste diocesane è avvenuta nella Cattedrale di Kikwit domenica 28 aprile 2013; l’8 giugno 2013 sono seguite le rispettive Inchieste rogatoriali nella Diocesi di Bergamo, dove le Suore avevano vissuto parte della loro vita, concludendosi entro il gennaio 2014. La chiusura delle Inchieste diocesane è avvenuta a Kikwit il 23 febbraio 2014.
La “Positio super virtutibus” di Suor Vitarosa è stata terminata l’8 giugno 2018 ed è stata esaminata il 25 giugno 2020 dai Consultori Teologi della Congregazione delle Cause dei Santi. Il 20 febbraio 2021, ricevendo in udienza il cardinal Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione dei decreti relativi all’eroicità delle virtù di Suor Floralba, Suor Clarangela e Suor Dinarosa. Il 17 marzo 2021, invece, ha autorizzato la promulgazione di quelli relativi a Suor Vitarosa, Suor Annelvira e Suor Danielangela.
Autore: Emilia Flocchini e suor Linadele Canclini, Postulatrice generale delle Suore delle Poverelle
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