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† Seul, Corea del Sud, 2 luglio 1801
Ignazio Choe In-cheol collaborò attivamente col fratello Mattia Choe In-gil alla diffusione del cattolicesimo in Corea. Alla cattura e conseguente martirio del fratello, s’impegnò ancora più intensamente a evangelizzare il suo popolo, anche per riparare a un precedente atto di apostasia, compiuto per salvarsi la vita. La sua condanna a morte venne eseguita per decapitazione il 2 luglio 1801, insieme ad altri sette compagni di fede. Inserito con loro nel gruppo di martiri capeggiato da Paolo Yun Ji-chung, è stato beatificato da papa Francesco il 16 agosto 2014, nel corso del viaggio apostolico in Corea del Sud.
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Ignazio Choe In-cheol nacque a Seul, in data ignota, nella famiglia di un interprete. Apprese il catechismo da Mattia Choe In-gil, suo fratello maggiore, uno dei primi evangelizzatori della Corea. Insieme a lui venne arrestato per la prima volta durante la persecuzione Sinhae del 1791, ma gli venne concesso di tornare a casa per tre giorni, allo scopo di farlo apostatare.
Quando Ignazio tornò, venne convinto dall’anziana madre e dai fratelli, che lo supplicavano in lacrime, a salvarsi la vita. Pertanto, si ripresentò al Ministero della Giustizia e dichiarò: «Non crederò alla religione cattolica», ma si affrettò ad aggiungere: «Anche se venissi picchiato a morte, non posso dire che la religione cattolica sia una religione malvagia».
Rimandato di nuovo a casa, comprese il suo errore e si diede a un’ancora più intensa vita di fede, affiancando il fratello nell’assistenza ai compagni di fede. In particolare, Mattia si occupò di trovare rifugio al primo sacerdote che riuscì a mettere piede nel Paese, il cinese padre Giacomo Zhou Wen-mo.
Tuttavia, dopo aver tentato d’ingannare la polizia venuta ad arrestare il sacerdote facendosi passare per lui, venne arrestato e patì il martirio, insieme agli accompagnatori di padre Giacomo, il 28 giugno 1795.
Raccogliendo, in un certo senso, l’eredità del fratello martire, Ignazio divenne uno dei responsabili della Chiesa e partecipò ancora più attivamente alla sua espansione. Bruciò la tavoletta per i riti ancestrali, lo stesso gesto che costò la vita a Paolo Yun Ji-chung. Ogni volta che il sacerdote era a rischio della vita, s’impegnava a farlo fuggire.
Allo scoppio della persecuzione Shinyu, Ignazio si rifugiò in casa di una zia, dove fu arrestato. Subì numerosi interrogatori e svariate torture presso il quartier generale della polizia a Seul e presso il Ministero della Giustizia, ma rimase saldo: «Anche se venissi ucciso, non abbandonerò la mia religione cattolica». Piuttosto che ritrattare, spiegò come negli insegnamenti della sua fede risiedesse la salvezza eterna.
Infine, il Ministero lo condannò a morte sulla base di cinque accuse: aver infranto la promessa di non credere al cattolicesimo; aver creduto al cattolicesimo quando suo fratello morì; aver dedicato la sua vita a diffondere gli insegnamenti cattolici insieme ai suoi compagni; aver dichiarato che la dottrina cattolica è grandiosa perfino al quartier generale della polizia; aver invitato in Corea padre Giacomo Zhou e averlo servito.
Così, insieme a Colomba Kang Wan-suk, Susanna Kang Gyeong-bok, Matteo Kim Hyeon-u, Viviana Mun Yeong-in, Giuliana Kim Yeon-i, Antonio Yi Hyeon e Agata Han Sin-ae, venne condotto presso la Piccola Porta Occidentale di Seul e decapitato il 2 luglio 1801 (22 maggio del calendario lunare).
Ignazio Choe In-cheol e i suoi compagni, inseriti nel gruppo di martiri capeggiato da Paolo Yun Ji-chung (del quale fanno parte anche Mattia Choe In-gil e compagni e padre Giacomo Zhou Wen-mo), sono stati beatificati da papa Francesco il 16 agosto 2014, nel corso del viaggio apostolico in Corea del Sud.
Autore: Emilia Flocchini
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